VOCI AL CHIARO DI LUNA

LETTURE DA AUTORI VARI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Yo no le canto a la luna

porque alumbra y nada más

le canto porque ella sabe

de mi largo caminar

Atahualpa Yupanqui

(Pergamino,  Argentina 1908 – 1992)

LI BAI

(LI PO)

(Cina Dinastia Tang 701 – 762)

PENSIERI NOTTURNI

Di fronte al mio letto la luna rischiara la terra

come riflessi di brina.

Alzo lo sguardo alla fulgente luna,

poi chino il capo:  la mia terra è lontana.

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ANONIMO

IL RE CHE VOLEVA LA LUNA

In un regno molto lontano viveva un re molto ricco ma anche molto avaro:  voleva sempre tutto per sé.

Un giorno decise di donare metà di tutte le sue ricchezze a chi gli avesse portato la luna.

Nessuno aveva prestato ascolto a questa proposta se non tre pescatori che si misero in viaggio.

Naviga e naviga,  una bella notte raggiunsero il punto nel quale la luna cade nel mare per riposare e i tre pescatori,  astuti e assai veloci,  la rinchiusero dentro un sacco.

Le notti successive tutti gli abitanti della terra si chiesero dove fosse finita la luna;  alcuni dicevano perfino che fosse caduta per sempre nel mare.

Nel frattempo,  i tre pescatori avevano raggiunto la terra ferma e chiedevano a tutti dove si trovasse il regno di quel re che voleva la luna.

La gente li scherniva e loro,  impauriti,  cercavano di nascondere come meglio potevano il loro bottino.

Ma una notte la luna cominciò a risplendere in maniera meravigliosa e,  nonostante tutti i nascondigli,  emanava una luce troppo forte.

La gente al vedere quella luce si rallegrò e molte persone cominciarono e cercarla.

Capirono il tranello dei tre pescatori ladri,  li rincorsero e li presero.

Scovarono il nascondiglio della luna che tornò a illuminare il cielo.

Ed anche ora,  tutte le notti quando è piena,  ride come una pazzerellona.

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GIANNI RODARI

(Omegna,  Italia   1920 – 1980)

SULLA LUNA

Sulla luna,  per piacere,

non mandate un generale:

ne farebbe una caserma

con la tromba e il caporale.

 

Non mandateci un banchiere

sul satellite d’argento

o lo mette in cassaforte

per mostrarlo a pagamento.

 

Non mandateci un ministro

col suo seguito di uscieri:

empirebbe di scartoffie

i lunatici crateri.

 

Ha da essere un poeta

sulla luna ad allunare:

con la testa nella luna

lui da un pezzo ci sa stare…

 

A sognar i più bei sogni

è da un pezzo abituato:

sa sperare l’impossibile

anche quando è disperato.

 

Or che i sogni e le speranze

si fan veri come fiori,

sulla luna e sulla terra

fate largo ai sognatori!

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ITALO CALVINO

(Santiago de las Vegas,  Cuba 1923 – 1985)

PALOMAR

(1983)

Luna di pomeriggio

   La luna di pomeriggio nessuno la guarda,  ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento,  dato che la sua esistenza è ancora in forse.  È un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo,  carico di luce solare;  chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza?  È così fragile e pallida e sottile;  solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce,  e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste.  È come un’ostia trasparente,  o una pastiglia mezzo dissolta;  solo che qui il cerchio bianco non si sta disfacendo ma condensando,  aggregandosi a spese delle macchie e ombre grigiazzurre che non si capisce se appartengano alla geografia lunare o siano sbavature del cielo che ancora intridono il satellite poroso come una spugna.

In questa fase il cielo è ancora qualcosa di molto compatto e concreto e non si può essere sicuri se è dalla sua superficie tesa e ininterrotta che si sta staccando quella forma rotonda e biancheggiante,  d’una consistenza appena più solida delle nuvole,  o se al contrario si tratta d’una corrosione del tessuto del fondo,  una smagliatura della cupola,  una breccia che s’apre sul nulla retrostante.  L’incertezza è accentuata dall’irregolarità della figura che da una parte sta acquistando rilievo (dove più le arrivano i raggi del sole declinante),  dall’altra indugia in una specie di penombra.  E siccome il confine tra le due zone non è netto,  l’effetto che ne risulta non è quello d’un solido visto in prospettiva ma piuttosto d’una di quelle figurine delle lune sui calendari,  in cui un profilo bianco si stacca entro un cerchietto scuro.

La luna è il più mutevole dei corpi dell’universo visibile,  e il più regolare nelle sue complicate abitudini:  non manca mai agli appuntamenti e puoi sempre aspettarla al varco,  ma se la lasci in un posto la ritrovi sempre altrove,  e se ricordi la sua faccia voltata in un certo modo,  ecco che ha già cambiato posa,  poco o molto.  Comunque,  a seguirla passo passo,  non t’accorgi che impercettibilmente ti sta sfuggendo.  Solo le nuvole intervengono a creare l’illusione d’una corsa e d’una metamorfosi rapide,  o meglio,  a dare una vistosa evidenza a ciò che altrimenti sfuggirebbe allo sguardo.

Corre la nuvola,  da grigia si fa lattiginosa e lucida,  il cielo dietro è diventato nero,  è notte,  le stelle si sono accese,  la luna è un grande specchio abbagliante che vola.  Chi riconoscerebbe in lei quella di qualche ora fa?  Ora è un lago di lucentezza che sprizza raggi tutt’intorno e trabocca nel buio un alone di freddo argento e inonda di luce bianca le strade dei nottambuli.

Non c’è dubbio che quella che ora comincia è una splendida notte di plenilunio d’inverno.

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ALDA MERINI

(Milano,  Italia 1931 – 2009)

CANTO ALLA LUNA

La luna geme sui fondali del mare,

o Dio morta di paura

di queste siepi terrene,

o quanti sguardi attoniti

che salgono dal buio

a ghermirti nell’anima ferita.

 

La luna grava su tutto il nostro io

e anche quando sei prossima alla fine

senti odore di luna

sempre sui cespugli martoriati

dai mantici

dalle parodie del destino.

 

Io sono nata zingara,  non ho posto fisso nel mondo,

ma forse al chiaro di luna

mi fermerò il tuo momento,

quanto basti per darti

un unico bacio d’amore.

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ANONIMO

NON SI PUÒ RUBARE LA LUNA

 

Riokan,  un maestro Zen,  viveva nella più assoluta semplicità in una piccola capanna ai piedi di una montagna.  Una sera un ladro entrò nella capanna e fece la scoperta che non c’era proprio niente da rubare.

Riokan tornò e lo sorprese.  “Forse hai fatto un bel pezzo di strada per venirmi a trovare,”  disse al ladro “e non devi andartene e mani vuote.  Fammi la cortesia,  accetta i miei vestiti in regalo.”

Il ladro rimase sbalordito.  Prese i vestiti e se la svignò.

Riokan si sedette,  nudo,  a contemplare la luna.  “Pover’uomo,”  pensò “avrei voluto potergli dare questa bella luna.”

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PAUL VERLAINE

(Metz,  Francia 1844 – 1896)

L’ORA DEL PASTORE

 

La luna è rossa sul bruno orizzonte;

nella nebbia che danza la prateria

s’addormenta fumosa,  e la rana grida

tra i verdi giunchi che un brivido attraversa;

 

i fiori d’acqua chiudono le corolle;

in lontananza,  dritti e serrati,

alcuni pioppi allineano i loro incerti spettri;

intorno ai cespugli vagano le lucciole;

 

si svegliano i gufi e silenziosi

nell’aria nera remano con le ali pesanti,

e lo zenit si riempie di sordi bagliori.

Bianca,  Venere emerge,  ed è la Notte.

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MURAKAMI HARUKI

(Kobe,  Giappone 1949 – )

L’UCCELLO CHE GIRAVA LE VITI DEL MONDO

(Neji makidori Kuronikuru   1994)

Parte terza

IL FLAUTO MAGICO

5

Quel che accadde nel cuore della notte

 

Era notte fonda quando il bambino udì quel rumore ben distinto.  Aprì gli occhi,  accese a tastoni la lampada e si guardò intorno.  L’orologio sul muro segnava quasi le due.  Chi mai poteva essere a un’ora così tarda?  Il bambino non riusciva a immaginarlo.

Il rumore si sentì di nuovo.  Veniva da fuori,  senza possibilità d’errore.  Sembrava che qualcuno da qualche parte girasse una grossa vite.  Chi poteva mettersi ad armeggiare con le viti in piena notte?  No,  si sbagliava,  era solo un’impressione,  in realtà si trattava di qualcos’altro.  Era il verso di un uccello da qualche parte.  Il bambino portò una sedia vicino alla finestra,  vi salì,  scostò le tende e aprì un poco la finestra.  In mezzo al cielo c’era una grande e candida luna di fine autunno,  che inondava di luce tutto il giardino.  Di notte gli alberi facevano un’impressione molto diversa,  non avevano la familiarità solita.  La quercia dai pesanti rami carichi di foglie aveva un’aria quasi annoiata,  e tremava con sgradevoli cigolii alle folate di vento intermittenti.  Le pietre ornamentali sembravano più bianche e levigate del solito,  guardavano immobili verso il cielo come facce di persone morte.

L’uccello doveva trovarsi sul pino,  il verso veniva da lì.  Il bambino si sporse fuori dalla finestra e guardò in alto,  ma da sotto non riuscì a vederlo,  i rami grandi e spessi lo nascondevano.  Gli sarebbe piaciuto sapere che aspetto avesse.  Imprimersi bene nella testa il colore e la forma,  così il giorno seguente ne avrebbe cercato con calma il nome sull’enciclopedia.  Per la curiosità di vedere,  il sonno gli era passato.  Era la cosa che gli piaceva di più,  cercare il nome degli uccelli sull’enciclopedia che gli avevano comprato,  in quei grossi,  bellissimi volumi disposti in fila nella libreria.  Non era ancora entrato alla scuola elementare,  ma riusciva già a leggere delle frasi con degli ideogrammi.

Dopo aver ripetuto più volte quel suono di viti girate,  l’uccello per un po’ tacque.  Il bambino si chiese se qualcun altro avesse mai sentito il suo verso.  Suo padre e sua madre,  forse?  O sua nonna?  Se nessuno l’aveva mai sentito,  il mattino seguente avrebbe potuto raccontarlo a tutti:  alle due di notte sul pino del giardino c’era un uccello che cantava,  faceva davvero un verso come se avvitasse delle viti.  Se almeno avesse potuto dargli un’occhiata,  una sola!  Così avrebbe potuto dire a tutti il suo nome.

Però non lo sentì più.  Sul ramo del pino inondato dalla luce della luna,  l’uccello era muto come una tomba.  A un certo punto nella stanza entrò una folata di vento freddo,  come per dare un segnale d’allarme.  Il bambino ebbe un brivido,  rinunciò e chiuse la finestra.  Quello lì non doveva essere un uccello che si mostrava tanto facilmente alla gente,  come un passero o un piccione,  quasi tutti gli uccelli notturni erano intelligenti e molto cauti,  l’aveva letto sull’enciclopedia.  E poi forse si era reso conto che lo stava spiando e non si sarebbe più mostrato,  poteva aspettare finché voleva.

   Spense la lampada e chiuse gli occhi.  Ma non riusciva ad addormentarsi,  continuava a pensare a quell’uccello sul pino.  Benché avesse spento la lampada,  il chiarore della luna filtrava attraverso le tende come se l’invitasse.  Quando sentì nuovamente il verso dell’uccello-giraviti il bambino balzò fuori dal letto senza pensarci due volte.  Questa volta non accese la luce,  si mise un golf sopra il pigiama e in silenzio salì sulla sedia appoggiata alla finestra.  Scostò appena appena le tende,  e dalla fessura osservò il pino.  In quel modo l’uccello non si sarebbe accorto che lo stava spiando.

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FERNANDO PESSOA

(Lisbona,  Portogallo 1888 – 1935)

VA ROTONDA E ALTA…

(Vai redonda e alta…)

Va rotonda e alta

la luna.  Che dolore

è in me un amore?…

Non so che mi manca…

 

Non so quel che voglio,

né posso sognarlo…

Come il chiaro di luna è rado,

sul suolo austero e vago!…

 

Mi metto a sorridere

all’idea di me…

E tanto triste,  così

come chi sta a udire

 

una voce che lo chiama

ma non sa da dove

(voce che in sé si nasconde)

e solo essa ama…

 

E tutto ciò è chiar di luna

e il mio dolore

resosi esteriore

al mio meditare…

 

Che conturbamento!

Che inquieta illusione!

E questa sensazione

vana,  di essere cieco

 

nel mio pensiero,

nella mia volontà…

Ah la soavità

del chiar di luna senza tormento

 

che batte sull’anima

di chi solo senta

il chiar di luna,  e esista

solo per la sua calma.

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LUIGI PIRANDELLO

(Agrigento,  Italia 1867 – 1936)

MALE DI LUNA

   Arrivò in paese,  in casa della madre,  poco prima dell’alba.  La madre s’era alzata da poco.  La catapecchia,  buja come un antro,  in fondo a un vicolo angusto,  era stenebrata appena da una lumierina a olio.  Sidora parve la ingombrasse tutta,  precipitandosi dentro,  scompigliata,  affannosa.

Nel vedere la figliuola a quell’ora,  in quello stato,  la madre levò le grida e fece accorrere con le lumierine a olio in mano tutte le donne del vicinato.

Sidora si mise a piangere forte e,  piangendo,  si strappava i capelli,  fingeva di non poter parlare per far meglio comprendere e misurare alla madre,  alle vicine,  l’enormità del caso che le era occorso,  della paura che s’era presa.

“Il male della luna!  Il male della luna!”

Il terrore superstizioso di quel male oscuro invase tutte le donne,  al racconto di Sidora.

Ah,  povera figliuola!  Lo avevano detto esse alla madre,  che quell’uomo non era naturale,  che quell’uomo doveva nascondere in sé qualche grossa magagna;  che nessuna di loro lo avrebbe dato alla propria figliuola.  Latrava eh?  Ululava come un lupo?  Graffiava la porta?  Gesù che spavento!  E come non era morta,  povera figliuola?

La madre accasciata su la seggiola,  finita,  con le braccia e il capo ciondoloni,  nicchiava in un canto:

“Ah figlia mia!  Ah figlia mia!  Ah povera figliuccia mia rovinata!”

Sul tramonto,  si presentò nel vicolo,  tirandosi dietro per la cavezza le due mule bardate,  Batà,  ancora gonfio e livido,  avvilito,  abbattuto,  imbalordito.

   La madre di Sidora sulla soglia si parò,  fiera e tutta tremante di rabbia,  e cominciò a gridare:

“Andate via,  malo cristiano!  Avete il coraggio di ricomparirmi davanti?  Via di qua!  Via di qua!  Mi avete rovinato una figlia!  Via di qua!

   Batà ascoltò a capo chino minacce e vituperii.  Gli toccavano:  era in colpa;  aveva nascosto il suo male.  Lo aveva nascosto,  perché nessuna donna se lo sarebbe preso,  se egli lo avesse confessato avanti.  Era giusto che ora della sua colpa pagasse la pena.

Batà rimase ancora un pezzo,  a capo chino,  davanti a quella porta chiusa,  poi si voltò e scorse su gli usci delle altre casupole tanti occhi smarriti e sgomenti,  che lo spiavano.

Videro quegli occhi le lagrime sul volto dell’uomo avvilito,  e allora lo sgomento si cangiò in pietà.

E Batà (…)  prese adagio adagio a narrar loro la sua sciagura:  che la madre da giovane,  andata a spighe,  dormendo su un’aja al sereno,  lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna;  e tutta quella notte,  lui povero innocente,  (…),  ci aveva giocato,  con la bella luna,  dimenando le gambette,  i braccini.  E la luna lo aveva “incantato”.  L’incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni,  e solo da poco tempo gli s’era risvegliato.  Ogni volta che la luna era in quintadecima,  il male lo riprendeva.  Ma era un male soltanto per lui;  bastava che gli altri se ne guardassero:  e se ne potevano guardare bene,  perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava;  durava una notte sola,  e poi basta.  Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa;  ma,  poiché non era,   si poteva far così,  che o lei,  a ogni fatta di luna,  se ne venisse al paese,  dalla madre;  o questa andasse giù alla roba,  a tenerle compagnia.

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GABRIELE D’ANNUNZIO

(Pescara,  Italia 1863 – 1938 )

O FALCE DI LUNA CALANTE

O falce di luna calante,

che brilli su l’acque deserte,

o falce d’argento,  qual mèsse di sogni

ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

 

Aneliti brevi di foglie,

sospiri di fiori dal bosco

esalano al mare;  non canto non grido

non suono pe’ l vasto silenzio va.

 

Oppresso d’amor,  di piacere,

il popol de’ vivi s’addorme…

O falce calante,  qual mèsse di sogni

ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

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GIACOMO LEOPARDI

DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA

 

TERRA   Cara Luna,  io so che tu puoi parlare e rispondere;  per essere una persona;  secondo che ho inteso molte volte da’ poeti:  oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca,  naso e occhi,  come ognuno di loro;  e che lo veggono essi cogli occhi propri;  che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi.  Quanto a me,  non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona;  (…)

LUNA   (…)  Se ti pare di favellarmi,  favellami a tuo piacere;  che quantunque amica del silenzio,  come credo che tu sappi,  io t’ascolterò e ti risponderò volentieri,  per farti servigio.

TERRA   (…)  Dimmi:  sei tu popolata veramente,  come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni,  (…)?

LUNA   (…)  io sono abitata.

TERRA   Di che colore sono cotesti uomini?

LUNA   Che uomini?

TERRA   Quelli che tu contieni.  Non dici di essere abitata?

LUNA   Sì:  e per questo?

TERRA   E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.

LUNA   Né bestie né uomini;  che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre.  E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando,  in proposito,  a quel che io stimo,  degli uomini,  io non ho compreso un’acca.

TERRA   Ma che sorte di popoli sono coteste?

LUNA   Moltissime e diversissime,  che tu non conosci,  come io non conosco le tue.

TERRA   Cotesto mi riesce strano in modo,  che se io non l’udissi da te medesima,  io non lo crederei per nessuna cosa del mondo.  Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi?

LUNA   No,  che io sappia.  E come?  e perché?

TERRA   Per ambizione,  per cupidigia dell’altrui,  colle arti politiche,  colle armi.

LUNA   Io non so che voglia dire armi,  ambizione,  arti politiche,  in somma niente di quel che tu dici.

TERRA   Ma certo,  se tu non conosci le armi,  conosci pure la guerra:  perché,  poco dianzi,  un fisico di quaggiù,  con certi cannocchiali,  che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano,  ha scoperto costì una bella fortezza,  co’ suoi bastioni diritti;  che è segno che le tue genti usano,  se non altro,  gli assedi e le battaglie murali.

LUNA   Perdona,  monna Terra,  se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca,  come io sono.  Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue;  come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto.  Io dico di essere abitata,  e tu da questo concludi che gli abitatori miei debbono essere uomini.  Ti avverto che non sono;  e tu consentendo che sieno altre creature,  non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli;  e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico.  Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose,  io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli;  che scuoprono in me gli occhi,  la bocca,  il naso,  che io non so dove me gli abbia.

TERRA   Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette;  e che tu sei coltivata:  cose che dalla parte della Germania,  pigliando un cannocchiale,  si veggono chiaramente.

LUNA   Se io sono coltivata,  io non me ne accorgo,  e le mie strade io non le veggo.

TERRA   Cara Luna,  tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo;  e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente.  Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti,  tu non fosti però sempre senza pericolo:  perché in diversi tempi,  molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse;  e a quest’effetto fecero molte preparazioni.  Se non che,  salite in luoghi altissimi,   e levandosi sulle punte de’ piedi,  e stendendo le braccia,  non ti poterono arrivare.  Oltre a questo,  già da non pochi anni,  io veggo spiare minutamente ogni tuo sito,  ricavare le carte de’ tuoi paesi,  misurare le altezze di cotesti monti,  de’ quali sappiamo anche i nomi.  Queste cose,  per la buona volontà ch’io ti porto,  mi è paruto bene di avvisartele,  acciò che tu non manchi di provvedere per ogni caso.  Ora,  venendo ad altro,  come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro?  Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo?  Sei tu femmina o maschio?  perché anticamente ne fu varia opinione.  È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te?   che le tue donne,  o altrimenti che io lo debba chiamare,  sono ovipare;  e che una delle loro uova cadde quaggiù non so quando?  che tu sei traforata a guisa dei paternostri,  come crede un fisico moderno?  che sei fatta,  come affermano alcuni Inglesi,  di cacio fresco?  che Maometto un giorno,  o una notte che fosse,  ti spartì per mezzo,  come un cocomero;  e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica?  Come stai volentieri in cima dei minareti?  Che ti pare della festa del bairam?

LUNA   Va pure avanti;  che mentre seguiti così,  non ho cagione di risponderti,  e di mancare al silenzio mio solito.  Se hai caro d’intrattenerti in ciance,  e non trovi altre materie che queste;  in cambio di voltarti a me,  che non ti posso intendere,  sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno,  che sia composto e abitato alla tua maniera.  Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili,  delle quali ho tanta notizia,  quanta di quel sole grande grande,  intorno al quale odo che giri il nostro sole.

TERRA   Veramente,  più che io propongo,  nel favellarti,  di astenermi da toccare le cose proprie,  meno mi viene fatto.  Ma da ora innanzi ci avrò più cura.  Dimmi:  sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto,  e poi lasciarla cadere?

LUNA   Può essere.  Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto,  io non mi avveggo di fartelo:  come tu similmente,  per quello che io penso,  non ti accorgi di molti effetti che fai qui;  che debbono essere tanto maggiori de’ miei,  quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.

TERRA   Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole,  e a me la tua;  come ancora,  che io ti fo gran lume nelle tue notti,  che in parte lo veggo alcune volte.  Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra.  Io vorrei sapere se veramente,  secondo che scrive l’Ariosto,  tutto quello che ciascun uomo va perdendo;  come a dire la gioventù,  la bellezza,  la sanità,  le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi (…);  tutto sale e si raguna costà:  di modo che vi si trovano tutte le cose umane;  fuori della pazzia,  che non si parte dagli uomini.  (…)  Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione,  per la quale tu mi rendessi di presente,  e poi di mano in mano,  tutte queste cose;  donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata,  massime del senno,  il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio;  ed io ti farò pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.

LUNA   Tu ritorni agli uomini;  e,  con tutto che la pazzia,  come affermi,  non si parta da’ tuoi confini,  vuoi farmi impazzire a ogni modo,  e levare il giudizio a me,  cercando quello di coloro;  il quale io non so dove sia,  né se vada o resti in nessuna parte del mondo;  so bene che qui non si trova;  come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi.

TERRA   Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi,  i misfatti,  gl’infortuni,  i dolori,  la vecchiezza,  in conclusione i mali?  intendi tu questi nomi?

LUNA   Oh cotesti sì che gl’intendo;  e non solo i nomi,  ma le cose significate,  le conosco a meraviglia:  perché ne sono tutta piena,  in vece di quelle altre che tu credevi.

TERRA   Quali prevalgono ne’ tuoi popoli,  i pregi o i difetti?

LUNA   I difetti di gran lunga.

TERRA   Di quali hai maggior copia,  di beni o di mali?

LUNA   Di mali senza comparazione.

TERRA   E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?

LUNA   Tanto infelici,  che io non mi scambierei col più fortunato di loro.

TERRA   Il medesimo è qui.  Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose,  in questa mi sei conforme.

LUNA   Anche nella figura,  e nell’aggirarmi,  e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme;  e non è maggior maraviglia quella che questa:  perché il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo,  o almeno di questo mondo solare,  come la rotondità e le altre condizioni che ho detto,  né più né meno.  E se tu potessi levare tanto alto la voce,  che fossi udita da Urano o da Saturno,  o da qualunque altro pianeta del nostro mondo;  e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità,  e se i beni prevagliano o cedano ai mali;  ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io.  Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio,  ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te;  come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso:  e tutti mi hanno risposto come ho detto.  E penso che il sole medesimo,  e ciascuna stella risponderebbe altrettanto.

TERRA   Con tutto cotesto io spero bene:  e oggi massimamente,  gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità.

LUNA   Spera a tuo senno:  e io ti prometto che potrai sperare in eterno.

TERRA   Sai che è?  questi uomini e queste bestie si mettono a romore:  perché dalla parte dalla quale io ti favello,  è notte come tu vedi,  o piuttosto non vedi;  sicché tutti dormivano;  e allo strepito che noi facciamo parlando,  si destano con gran paura.

LUNA   Ma qui da questa parte,  come tu vedi,  è giorno.

TERRA   Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente,  e di rompere loro il sonno,  che è il maggior bene che abbiano.  Però ci riparleremo in altro tempo.  Addio,  dunque;  buon giorno.

LUNA   Addio;  buona notte.

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FEDERICO GARCÍA LORCA

(Fuente Vaqueros,  Granada 1898 – 1936)

ROMANZA DELLA LUNA,  LUNA

(Romance de la luna,  luna)

La luna venne alla fucina

col suo sellino di nardi.

Il bambino la guarda,  guarda.

Il bambino la sta guardando.

 

Nell’aria commossa

la luna muove le sue braccia

e mostra,  lubrica e pura,

i suoi seni di stagno duro.

 

Fuggi,  luna,  luna,  luna.

Se venissero i gitani

farebbero col tuo cuore

collane e bianchi anelli.

 

Bambino,  lasciami ballare.

Quando verranno i gitani,

ti troveranno sull’incudine

con gli occhietti chiusi.

 

Fuggi,  luna,  luna,  luna,

che già sento i loro cavalli.

Bambino,  lasciami,  non calpestare

il mio biancore inamidato.

 

Il cavaliere si avvicinava

suonando il tamburo del piano.

Nella fucina il bambino

ha gli occhi chiusi.

 

Per l’uliveto venivano,

bronzo e sogno,  i gitani.

Le teste alzate

e gli occhi socchiusi.

 

Come canta il gufo,

ah,  come canta sull’albero!

Nel cielo va la luna

con un bimbo per mano.

 

Nella fucina piangono,

gridano,  i gitani.

Il vento la veglia,  veglia.

Il vento la sta vegliando.

 

A Conchita García Lorca

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ANONIMO NATIVO AMERICANO

LA LEGGENDA DELLA LUNA PIENA

In una bella sera estiva,  tanto tempo fa,  in cielo splendeva una sottile falce di luna che si affacciava fra le nuvole.  Un lupo,  seduto sulla cima di un monte,  ululava senza sosta.  I suoi ululati erano lunghi,  ripetuti e disperati.  La luna,  la regina d’argento della notte,  ne fu infastidita e gli chiese perché si lamentasse tanto.  Il lupo rispose che aveva perso uno dei suoi cuccioli e che ormai disperava di trovarlo.  La regina della notte,  dispiaciuta e desiderosa di aiutarlo,  pensò di illuminare tutta la montagna per far sì che il lupacchiotto trovasse la via del ritorno.  Così si gonfiò tanto da diventare un disco grande e luminoso.  A quel punto il lupo ritrovò il suo cucciolo,  tremante di freddo e di paura,  sull’orlo di un precipizio.  Lo afferrò in tempo,  lo strinse forte,  lo rincuorò e ringraziò infinitamente la luna.  Poi se ne andò col figlioletto,  allontanandosi tra la vegetazione.  Le fate dei boschi,  commosse,  decisero di fare un bellissimo regalo:  una volta al mese la luna sarebbe diventata un globo di luce grande e luminoso,  visibile a tutti,  in modo che tutti i cuccioli del mondo potessero ammirarla in tutto il suo splendore.  Da allora,  una volta al mese i lupi ululano festosi alla luna piena.

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GIACOMO LEOPARDI

(Recanati,  Italia 1798 – 1837)

ALLA LUNA

O graziosa luna,  io mi rammento

che,  or volge l’anno,  sovra questo colle

io venia pien d’angoscia a rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai,  che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio,  alle mie luci

il tuo volto apparia,  che travagliosa

era mia vita:  ed è,  né cangia stile

o mia diletta luna.  E pur mi giova

la ricordanza,  e il novear l’etate

del mio dolore.  Oh come grato occorre

nel tempo giovanil,  quando ancor lungo

la speme  e breve ha la memoria il corso

il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste,  e che l’affanno duri!

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CHARLES BAUDELAIRE

(Parigi,  Francia 1821 – 1867)

I BENEFICI DELLA LUNA

XXXVII

   Mentre dormivi nella tua culla,  la Luna,  che è il capriccio in persona,  guardò dalla finestra e disse:  “Questa bambina mi piace.”  Discese longitudinalmente la sua scala di nuvole e passò senza far rumore attraverso i vetri.  Poi si stese su di te con la morbida tenerezza di una madre e depose i suoi colori sulla tua faccia.  Così le tue pupille sono rimaste verdi e le tue guance straordinariamente pallide.  Contemplando quella visitatrice i tuoi occhi si sono così bizzarramente ingranditi;  e lei ti ha così teneramente serrato la gola che ti è rimasta per sempre la voglia di piangere.

Nell’espansione della sua gioia,  la Luna continuava a riempire tutta la stanza di un’atmosfera fosforescente,  di un veleno luminoso;  e tutta quella viva luce pensava e diceva:  “Subirai eternamente l’influsso del mio bacio.  Sarai bella a modo mio.  Amerai ciò che io amo e ciò che mi ama:  l’acqua,  le nuvole,  il silenzio e la notte;  il mare immenso e verde;  l’acqua informe e multiforme;  il luogo in cui non sei;  l’amante che non conosci;  i fiori mostruosi;  i profumi che fanno delirare;  i gatti che si beano sui pianoforti e che gemono come donne,  con voce roca o dolce.

E sarai amata dai miei amanti,  corteggiata da chi mi fa la corte.  Sarai la regina di chi ha gli occhi verdi,  di coloro a cui ho stretto la gola con le mie carezze notturne;  di coloro che amano il mare,  il mare immenso,  tumultuoso e verde,  l’acqua informe e multiforme,  il luogo in cui non sono,  la donna che non conoscono,  i fiori sinistri che somigliano ai turiboli di una religione ignota,  i profumi che turbano la volontà e gli animali selvaggi e voluttuosi che sono gli emblemi della loro follia.”

Ed è per questo,  maledetta e cara bambina viziata,  che io ora sono ai tuoi piedi e cerco in tutta la tua persona il riflesso della temibile Divinità,  della fatidica madrina,  dell’intossicante madrina di tutti i lunatici!

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JACQUES PRÉVERT

(Neuilly-sur-Seine,  Francia 1900 – 1977)

LA LUNA E LA NOTTE

Quella notte guardavo la luna.

ero alla finestra

e la guardavo

poi ho lasciato la finestra

mi sono spogliato

mi sono messo a letto

e subito la camera si è fatta molto chiara:

la luna era entrata.

Era proprio là quella notte

là nella mia camera

e brillava.

Avrei potuto parlarle.

Avrei potuto toccarla.

Ma non ho fatto nulla

L’ho soltanto guardata

sembrava calma e felice

avevo voglia di accarezzarla,

ma non sapevo decidermi.

Restavo là…  senza muovermi.

Lei mi guardava

brillava

e sorrideva…

Allora mi sono addormentato

e quando mi sono risvegliato

era già l’indomani mattina

e c’era soltanto il sole

sopra le case.

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LUIGI PIRANDELLO

CIÀULA SCOPRE LA LUNA

(1907)

   La scala era così erta,  che Ciàula,  con la testa protesa e schiacciata sotto il carico,  pervenuto all’ultima svoltata,  per quanto spingesse gli occhi a guardare in su,  non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.

Curvo,  quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra,  e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno,  egli veniva su,  su,  su,  dal ventre della montagna,  senza piacere,  anzi pauroso della prossima liberazione.  E non vedeva ancora la buca,  che lassù si apriva come un occhio chiaro,  d’una deliziosa chiarità d’argento.

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini.  Dapprima,  quantunque gli paresse strano,  pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno.  Ma la chiaria cresceva,  cresceva sempre più,  come se il sole,  che egli aveva pur visto tramontare,  fosse rispuntato.

Possibile?

Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito.  Il carico gli cadde dalle spalle.  Sollevò un poco le braccia;  aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.

Grande, placida,  come in un fresco luminoso oceano di silenzio,  gli stava di faccia la Luna.

Sì,  egli sapeva che cos’era;  ma come tante cose si sanno,  a cui non si è dato mai importanza.  E che poteva importare a Ciàula,  che in cielo ci fosse la Luna?

Ora,  ora soltanto,  così sbucato,  di notte,  dal ventre della terra,  egli la scopriva.

Estatico,  cadde a sedere sul suo carico,  davanti alla buca.  Eccola,  eccola là,  la Luna…  C’era la Luna!  la Luna!

E Ciàula si mise a piangere,  senza saperlo,  senza volerlo,  dal gran conforto,  dalla grande dolcezza che sentiva,  nell’averla scoperta,  là mentr’ella saliva pel cielo,  la Luna,  col suo ampio velo di luce,  ignara dei monti,  dei piani,  delle valli che rischiarava,  ignara di lui,  che pure per lei non aveva più paura,  né si sentiva più stanco,  nella notte ora piena del suo stupore.

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GUIDO GOZZANO

(Torino,  Italia 1883 – 1916)

 LA SIGNORINA FELICITA OVVERO LA FELICITÀ

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò,  lenta,  rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra un I gigante».

 

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ITALO CALVINO

LE COSMICOMICHE

(1965)

LA DISTANZA DELLA LUNA

 

Una volta, secondo Sir George H. Darwin,  la Luna era molto vicina alla Terra.  Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano:  le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri e in cui la Terra perde lentamente energia.

 

Lo so bene! – esclamò il vecchio Qfwfq, – voi non ve ne potete ricordare ma io sì.  L’avevamo sempre addosso,  la Luna,  smisurata:  quand’era il plenilunio – notti chiare come di giorno,  ma d’una luce color burro -,  pareva che ci schiacciasse;  quand’era lunanuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento;  e a lunacrescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata.  Ma tutto il meccanismo delle fasi andava diversamente che oggigiorno:  per via che le distanze dal Sole erano diverse,  e le orbite,  e l’inclinazione non ricordo di che cosa;  eclissi poi,  con Terra e Luna così appiccicate,  ce n’erano tutti i momenti:  figuriamoci se quelle due bestione non trovavano modo di farsi continuamente ombra a vicenda.

L’orbita?  Ellittica,  si capisce,  ellittica:  un po‘ ci s’appiattiva addosso e un po‘ prendeva il volo.  Le maree,  quando la Luna si faceva più sotto,  salivano che non le teneva più nessuno.  C’erano delle notti di plenilunio basso basso e d’altamarea alta alta che se la Luna non si bagnava in mare ci mancava un pelo;  diciamo:  pochi metri.  Se non abbiamo mai provato a salirci?  E come no?  Bastava andarci proprio sotto con la barca,  appoggiarci una scala a pioli e montar su.

Il punto dove la Luna passava più basso era al largo degli Scogli di Zinco.  Andavamo con quelle barchette a remi che si usavano allora,  tonde e piatte,  di sughero.  Ci si stava in parecchi:  io,  il capitano Vhd Vhd,  sua moglie,  mio cugino il sordo,  e alle volte anche la piccola Xlthlx che allora avrà avuto dodici anni.  L’acqua era in quelle notti calmissima,  argentata che pareva mercurio,  e i pesci,  dentro,  violetti,  che non potendo resistere all’attrazione della Luna venivano tutti a galla,  e così polpi e meduse color zafferano.  C’era sempre un volo di bestioline minute – piccoli granchi,  calamari,  e anche alghe leggere e diafane e piantine di corallo – che si staccavano dal mare e finivano nella Luna,  a penzolare giù da quel soffitto calcinoso,  oppure restavano lì a mezz’aria,  in uno sciame fosforescente,  che scacciavamo agitando delle foglie di banano.

Il nostro lavoro era così:  sulla barca portavamo una scala a pioli:  uno la reggeva,  uno saliva in cima,  e uno ai remi intanto spingeva fin lì sotto la Luna;  per questo bisognava che si fosse in tanti (vi ho nominato solo i principali).  Quello in cima alla scala,  come la barca s’avvicinava alla Luna,  gridava spaventato:  – Alt!  Alt!  Ci vado a picchiare una testata! – Era l’impressione che dava,  a vedersela addosso così immensa,  così accidentata di spunzoni taglienti e orli slabbrati e seghettati.  Ora forse è diverso,  ma allora la Luna,  o meglio il fondo,  il ventre della Luna,  insomma la parte che passava più accosto alla Terra fin quasi a strisciarle addosso,  era coperta da una crosta di scaglie puntute.  Al ventre d’un pesce,  era venuta somigliando,  e anche l’odore,  a quel che ricordo,  era,  se non proprio di pesce,  appena più tenue,  come il salmone affumicato.

In realtà,  d’in cima alla scala s’arrivava giusto a toccarla tendendo le braccia,  ritti in equilibrio sull’ultimo piolo.  Avevamo preso bene le misure (non sospettavamo ancora che si stesse allontanando);  l’unica cosa cui bisognava stare molto attenti era come si mettevano le mani.  Sceglievo una scaglia che paresse salda (ci toccava salire tutti,  a turno,  in squadre di cinque o sei),  m’aggrappavo con una mano,  poi con l’altra e immediatamente sentivo scala e barca scapparmi di sotto,  e il moto della Luna svellermi dall’attrazione terrestre.  Sì,  la Luna aveva una forza che ti strappava,  te ne accorgevi in quel momento di passaggio tra l’una e l’altra:  bisognava tirarsi su di scatto,  con una specie di capriola,  afferrarsi alle scaglie,  lanciare in su le gambe,  per ritrovarsi in piedi sul fondo lunare.  Visto dalla Terra apparivi come appeso a testa in giù,  ma per te era la solita posizione di sempre,  e l’unica cosa strana era,  alzando gli occhi,  vederti addosso la cappa del mare luccicante con la barca e i compagni capovolti che dondolavano come un grappolo dal tralcio.

 

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GIANNI RODARI

LA LUNA BAMBINA

E adesso a chi la diamo

questa luna bambina

che vola in un “amen”

dal Polo Nord alla Cina?

Se la diamo a un generale,

povera luna trottola,

la vorrà sparare

come una pallottola.

Se la diamo a un avaro

corre a metterla in banca:

non la vediamo più

né rossa né bianca.

Se la diamo a un calciatore,

la luna pallone,

vorrà una paga lunare:

ogni calcio un trilione.

Il meglio da fare

è di darla ai bambini,

che non si fanno pagare

a giocare coi palloncini:

se ci salgono a cavalcioni

chissà che festa;

se la luna va in fretta

non gli gira la testa,

anzi la sproneranno

la bella luna a dondolo,

lanciando grida di gioia

dall’uno all’altro mondo.

Della luna ippogrifo

reggendo le briglie,

faranno il giro del cielo

a caccia di meraviglie.

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MURAKAMI HARUKI

1Q84

(Ichi-kew-hachi-yon   2009)

Libro secondo

Luglio-settembre

18.   Tengo

Un satellite silenzioso e solitario

   Sospesa nel cielo notturno di inizio autunno,  la luna era luminosa e nitida.  Aveva la tranquilla dolcezza tipica della stagione.  La sua luce calmava e consolava il cuore.  Come lo calmano e lo consolano lo scorrere dell’acqua limpida e lo stormire delle foglie.

   Come sempre,  le luci brutali della città oscuravano le stelle.  Alcune però,  particolarmente luminose,  si intravedevano nel cielo sereno e privo di nubi.  Soltanto la luna appariva nitida.  Rimaneva fedelmente al suo posto,  senza neppure un lamento per le luci artificiali,  per il rumore,  per l’aria inquinata.  Fissandola,  si potevano distinguere le strane ombre create dai suoi grandi crateri e dalle valli.

    “A pensarci,  era tanto che non la osservavo con attenzione,”  pensò Tengo.  “Quando sarà l’ultima volta che ho alzato gli occhi per guardarla?  Nelle città,  in questi giorni frenetici,  viviamo tutti con gli occhi rivolti a terra,  e a nessuno viene in mente di osservare il cielo notturno.”

Poi si accorse che in un angolo di cielo,  leggermente distante da quella luna,  ce n’era sospesa un’altra.  All’inizio pensò che si trattasse di un’allucinazione.  O di un miraggio provocato dalla luce.  Ma non c’erano dubbi:  a risplendere era proprio una seconda luna,  dai contorni ben definiti.  Per qualche istante Tengo rimase senza parole,  con la bocca leggermente aperta,  a fissare confuso in quella direzione.  Non riusciva a stabilire cosa stesse vedendo.  Forma e sostanza non coincidevano.  Come quando pensiero e parola sono scissi.

“Una seconda luna?”

Chiuse gli occhi e con i palmi delle mani si sfregò energicamente i muscoli delle guance.  “Ma che cosa mi è successo?”   – pensò –  “Non ho neppure bevuto tanto alcol”.  Inspirò lentamente,  e lentamente espirò.  Con gli occhi chiusi,  al buio,  si assicurò che la propria coscienza fosse lucida.  “Chi sono?  Dove mi trovo?  Cosa sto facendo?  Siamo nel settembre del 1984,  io sono Kawana Tengo,  mi trovo a Suginami,  Kōenji,  in un parco per bambini,  e sto guardando la luna.  Nessun errore.”

Poi aprì piano gli occhi e tornò a guardare verso l’alto.  Con calma e attenzione.  Ma lo scenario era lo stesso di prima.  Vide ancora due lune sospese in cielo.

“Non è un’allucinazione.  Ci sono due lune.”  Tengo restò a lungo così,  stringendo forte il pugno della mano destra.

La luna continuava a essere silenziosa.  Ma non era più solitaria.

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MATSUO BASHŌ

(Ueno,  Giappone 1644 – 1694)

HAIKU

Non c’è nulla che puoi vedere che non sia un fiore;

non c’è nulla che puoi pensare che non sia la luna.

 

 

Dedicato a Geny

 26 Gennaio 2015