VOCI NEL SOLE DI MEZZANOTTE

LETTURE DA AUTORI ISLANDESI,  NORVEGESI E SVEDESI

(Scelte da Ezio Beccaria)

 

Nei castelli in aria è facile cercare rifugio.

E in più sono anche più facili da costruire.

Henrik Johan Ibsen

(Skien,  Norvegia 1828 – 1906)

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HANNES PÉTURSSON

(Sauðarkrókur,  Islanda 1931 – )

FUTURO

Il tuo viaggio è cominciato.
S’allontana il suolo natio.
Ora tu segui acque
che scorrono verso terre nuove
e nuovi orizzonti
scintillano davanti ai tuoi occhi.

Ma un giorno totalmente nuovo
tu non conoscerai mai.
Nella fonte dell’esperienza
cade la luce di ogni istante
e là si svela
proiettando il riflesso scintillante
di tutto ciò che prima fu.

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TOMAS TRANSTRÖMER

(Stoccolma,  Svezia 1931 – )

I RICORDI MI VEDONO

Una mattina di giugno in cui era troppo presto
per svegliarmi ma troppo tardi per riprendere sonno,

devo uscire nel verde che è colmo
di ricordi che mi seguono con lo sguardo.

Non si vedono,  si fondono completamente
col paesaggio,  perfetti camaleonti.

Sono così vicini che li sento respirare
benché il canto degli uccelli dia stupore.

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EINAR MÁR GUDMUNDSSON

 (Reykjavík,  Islanda 1954 – )

ORME NEL CIELO

PRIMA PARTE

Capitolo cinque

2

Haraldur Ólaffson – zio Halli – era il più vecchio dei fratelli di mio padre e restò sempre a casa di sua madre dopo essere tornato in città dal distretto di Kambi.

Halli e la nonna abitarono per la maggior parte della loro vita in Eiríksgata.

Dopo la morte della nonna,  Halli continuò a preparare il caffè e a versarne una tazza per lei,  visto che la nonna beveva molto caffè,  lo faceva forte e buono e lo chiamava “l’elisir della vita”.

Così Halli onorava in solitudine il ricordo di sua madre.  Lasciava la tazza sul tavolo e il caffè evaporava,  o forse la nonna lo beveva su qualche altro piano dell’esistenza,  perché a volte,  quando Halli faceva per vuotare la tazza,  la trovava già vuota.

Per molto tempo Halli osservò quest’usanza tutti i giorni tranne che a Natale,  quando prendeva l’intera caffettiera piena e la portava con sé (…),  fino al cimitero vecchio.  Andava dritto alla tomba di sua madre e vi versava sopra tutto quanto il caffè.

Una volta lo incontrai mentre camminava al freddo per il sentiero tra le tombe con su una giacca a vento da portuale e una caffettiera rossa in mano.

Vedevo come lo guardava la gente,  lui però non vi faceva caso,  sorrideva come gli uccelli nel regno dei cieli.

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SIGBJØRN OBSTFELDER

(Stravanger,  Norvegia 1866 – 1900)

LE TRACCE

La morte non mi mette più paura.

Ci arrivano continuamente tanti compagni.

Troverò la strada

seguendo tranquillamente

le loro fresche tracce.

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GÖRAN  SONNEVI

(Lund,  Svezia 1939 – )

IMMAGINE NEL VERDE DELL’AUTUNNO

Come matura lento l’autunno,

e nelle foglie scure

luccica pesante il sole.

Gli alberi stanno là

in attesa, pieni di tempo:

risplendono

dall’interno, come chiari frutti dai rami,

e non c’è apertura né chiusura da nessuna parte.

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PÄR FABIAN LAGERKVIST

(Växjö,  Svezia 1891 – 1974)

IL BOIA

(Bödeln   1933)

   Feci il giro della stanza provando una sensazione bizzarra.

In fondo,  nascosta in un angolo,  era appesa una grande spada a doppia lama,  larga e dritta,  su cui era incisa un’immagine della Madonna e di Gesù Bambino e una gran quantità di curiosi segni e iscrizioni.  Mi avvicinai per osservarla meglio,  non avendo mai visto niente di simile,  e non potei fare a meno di sfiorarla con le dita.  Si sentì come un profondo sospiro e qualcuno singhiozzò

Mi guardai intorno…  arretrando (…).

“Chi è che piange?”  domandai.

“Chi piange?  Non c’è nessuno che piange!”  rispose la madre.

I suoi occhi si fissarono su di me e il suo sguardo cambiò totalmente.

“Vieni!”  disse e,  prendendomi con forza per mano,  mi riportò davanti alla spada e me la fece di nuovo toccare.

E di nuovo si sentì con estrema chiarezza il profondo sospiro e qualcuno che singhiozzava.

“La spada!”  gridò lei tirandomi indietro con uno strattone.  “È nella spada!”

Mi lasciò andare e si voltò,  avvicinandosi al focolare:  si mise a rimestare in un paiolo che aveva sul fuoco.

“Di chi sei figlio?”  chiese dopo un po’,  passandosi la mano sulla bocca,  che prese un’espressione cattiva,  così mi parve,  nel dire quelle parole.

Risposi che ero figlio di Kristoffer di Våla,  poiché quello era il nome di mio padre.

“Ah,  ecco.”

 

(…),  si tirò vicino uno sgabello e mi prese in braccio e per un po’ mi accarezzò i capelli.

“E così,  dunque…”,  disse  scrutandomi a lungo.  “È meglio che ti accompagni dai tuoi”,  aggiunse.

 

Non appena spuntammo sull’aia di casa,  la mamma si precipitò sui gradini d’ingresso;  era di un pallore che non le avevo mai visto.

“Che cosa fai con mio figlio?  Molla il bambino,  ti dico!  Mollalo,  maledetta donnaccia!”

Lei mi lasciò subito andare;  il suo viso si contrasse in una smorfia:  pareva un animale braccato.

“Che cos’hai fatto a mio figlio?”

“Ci è arrivato in casa…”

“L’hai attirato nella tua casa infetta!”  gridò mia madre.

“Non sono stata io.  Ci è venuto da solo,  ti dico.  E si è avvicinato alla spada e l’ha per caso toccata,  e quella si è messa a gemere e a singhiozzare.”

La mamma mi guardò esitante e angosciata,  con occhi di fuoco.

“Lo sai cosa significa,  credo,  no?”

“No…  non lo so.”

“Che un giorno morirà della spada del boia.”

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ROLF JACOBSEN

(Oslo,  Norvegia 1907 – 1994)

A VOCE BASSA

Le parole,

minuscole parole

a bassa voce

quasi senza fiato

 

come steli troncati

parole senza luce

quasi senza forma

come parole sugli alberi,

piccole mezze parole,

come per un sonno

in tutti noi.

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HENNING MANKELL

(Stoccolma,  Svezia 1948 – )

SCARPE ITALIANE

(Italienska skor   2006)

Il ghiaccio

2.

Adesso il termometro segnava ventuno sotto lo zero.  Il cielo era stellato e la temperatura sarebbe scesa ulteriormente prima dell’alba.  Probabilmente si sarebbe arrivati a un record.  Aveva mai fatto così freddo?  Forse durante la guerra?  Decisi di chiedere a Jansson,  che di solito è bene informato su argomenti del genere.

Ero irrequieto.

Mi stesi sul letto e cercai di leggere.  Un libro sull’arrivo delle patate in Svezia.  L’avevo già letto diverse volte.  Probabilmente perché non nascondeva sorprese.  Potevo girare le pagine senza essere colpito da qualcosa di sgradevole o inaspettato.  A mezzanotte spensi la luce.  Il cane e il gatto si erano già addormentati da tempo.  Il legno delle pareti crepitava.

Cercai di prendere una decisione.  Dovevo continuare a fare la guardia alla mia fortezza?  O dichiararmi vinto e cercare di fare qualcosa di quella vita che immaginavo mi rimanesse?

Non presi alcuna decisione.  Rimasi steso al buio,  pensando che la vita sarebbe continuata così.  Non sarebbe successo niente di decisivo.

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THOR SØRHEIM

(Norvegia 1949 – )

C’È SEMPRE UN TUNNEL

C’è sempre un tunnel
dall’altra parte della luce,  un piccolo buco
sui nostri tramonti,  riflessi e dolori dell’amore
perché il mondo non crolli sulle nostre teste.  E noi che viaggiamo
a memoria ricorderemo quella parte della montagna
con le pietre pericolanti sopra di noi
e i più famosi oracoli profetizzeranno sempre giustamente
sino a quando considereremo la nostra vita
con una certa allegria.

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BJÖRN LARSSON

(Jönköping,  Svezia 1953 – )

IL PORTO DEI SOGNI INCROCIATI

(Drömmar vid havet   1997)

I

2

   Rosa Moreno non credeva che gli oroscopi indivinassero sempre.  Ma quante volte si avveravano le previsioni degli economisti sui tassi di interesse,  sull’andamento dei mercati,  sul deficit e il budget dello stato?  Quante volte avevano ragione i politici,  quando si pronunciavano sul futuro?

Del resto non era l’unica a essere così sciocca e credulona,  (…).  Aveva letto che in Francia operavano diecimila astrologi professionisti e che dieci milioni di francesi si servivano regolarmente dei loro servizi.  Un’azienda su dieci consultava un astrologo prima di assumere un nuovo collaboratore.  Erano tutti degli stupidi?  Perché allora non doveva credere alle stelle?

L’anno prima,  quando il Vaticano aveva pubblicato il nuovo catechismo,  Mercedes si era precipitata al Caffè Sport (…).  Aveva aperto il grosso volume di settecento pagine e aveva letto ad alta voce,  in modo che tutti potessero sentirla,  in quali termini la Chiesa Cattolica condannava l’astrologia e altre eresie dello stesso stampo.

“Ma Dio ha creato anche le stelle”,  aveva osato obiettare Rosa.  “Chi può dire che non se ne serva anche per parlare con noi?”

“Non credi che queste cose il Papa le sappia meglio di te?”  aveva risposto brusca Mercedes.

Rosa Moreno non aveva ribattuto.  Non poteva dire che non credeva in Dio perché Dio non l’aveva aiutata a vivere.  Dio non aveva impedito a sua madre di abbandonare lei e suo fratello Cecilio e aveva permesso che finissero prima in orfanotrofio e poi in una famiglia adottiva.  Dio non aveva impedito che Cecilio fosse trascinato in mare da un’onda dal peschereccio su cui lavorava.  E d’altra parte Dio non aveva aiutato neanche Mercedes a essere felice.  Invidiosa e meschina,  ecco cos’era,  nonostante tutta la sua fede.  E a che serve avere un Dio,  se non a essere felici?

Il capitano le sorrise e si sedette sullo sgabello proprio davanti alla cassa,  (…).

“Mi chiamo Marcel”,  disse in buono spagnolo (…).  “E tu?”  “Rosa Moreno.”

   Marcel aprì una sacca di tela bianca e tirò fuori un grosso barattolo di tabacco che posò sul bancone.  Rosa Moreno non aveva mai visto una confezione di tabacco così grande.  Doveva essere almeno da mezzo litro.  Gli chiese se non era scomodo andarsene in giro con una scatola tanto grande,  quando c’erano pacchetti più piccoli che stavano nella tasca posteriore dei pantaloni.

“Non ci ho mai pensato”,  rispose Marcel.  “Porto sempre con me tutto ciò che mi serve nella mia borsa.  Il tabacco,  i soldi,  lo spazzolino da denti,  un rasoio,  e carta e penna.  Non si sa mai.”

“Non si sa mai cosa?”  domandò Rosa Moreno.

“Se all’improvviso mi vien voglia di andarmene da qualche parte.  O anche solo di fermarmi dove sono.  Qui,  per esempio.”

“A Vilagarcía?”  esclamò Rosa incredula.

“No,  qui al Caffè Sport.  Non è così che si chiama?”

“E perché dovrebbe fermarsi qui?  Lei è capitano.  Ha la sua nave.”

“E allora?  Non varrebbe altrettanto la pena di starsene qui a guardare una bella ragazza come lei?”

Rosa Moreno si sentì avvampare le guance.

“Lo dice tanto per dire”,  rispose.  “A tutte le ragazze in tutti i porti.  Non lo pensa sul serio.”

“Sì,  invece”,  disse Marcel.  “Lo penso sul serio.  Lei è bella.  Ha un bel sorriso.”

“Come Ingrid Bergman?”  si avventurò a dire Rosa Moreno.

“Può darsi.  Ma non faccio paragoni.  È bello così com’è.”

Era la prima volta che qualcuno le diceva che bastava che fosse così com’era.  Ma continuava a non credere che lo pensasse sul serio.

“Sono sempre pronto a fermarmi o ad andarmene”,  spiegò Marcel.  “L’ho imparato una volta per tutte in Indonesia,  dove sono nato.  E se venissi qui ogni sera per una settimana,  mentre scaricano la nave,  e mi innamorassi di lei?  Dovrei ripartire ugualmente?  Non sarei più felice se rimanessi?  Una nave può sempre trovare un nuovo capitano.  Ma non si può sostituire una ragazza di cui si è innamorati.”

“Potrebbe portarsela a bordo”,  si sentì rispondere Rosa Moreno.  “Forse lei preferirebbe.”

Marcel rise.

“Forse.  Ma credo che la maggior parte delle ragazze preferisca che i marinai restino in mare.  Magari non il proprio,  ma di certo tutti gli altri.”

“Perché?”  chiese Rosa Moreno.

“Altrimenti non avrebbero nessuno da sognare.”,  rispose Marcel.

Rosa Moreno pensò che forse c’era qualcosa di vero.  Ma lei non aveva mai sognato un marinaio.  Solo di contare qualcosa e di sentire di esistere davvero.

“Se stesse in me”,  concluse in tono deciso,  “vorrei venire a bordo con lei.”

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OLAV H. HAUGE

(Ulvik,  Norvegia 1908 – 1994)

DISEGNO

Fosco giorno d’autunno,  nevischio.
Un morbido grigio disegno,
tracciato come in un sogno.
I pini han raccolto cotone di cielo
e infilato i fiocchi tra i capelli,
e le betulle tendono i rami sottili
delicatamente, delicatamente…
Su pozze ghiacciate scrivono gli uccelli
su nuove lavagne.

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OLAF OLAFFSON

(Reykjavík,  Islanda 1962 – )

IL VIAGGIO DI RITORNO

(The journey home   2000)

Questa volta parto.

Giù in cucina nel camino il fuoco scoppietta familiare e il profumo delle mele al forno di ieri sera impregna ancora l’aria.  Si sta svegliando il cielo;  a est riesco giusto a scorgere un bagliore rosato.  Sembra che il mio cane abbia fiutato che sto partendo.  Invece di starsene allungato davanti al fuoco a occhi chiusi,  come fa di solito al mattino presto,  mi ronza attorno,  strusciandosi contro le mie caviglie.  C’è silenzio in casa;  sono la sola in piedi,  perché ho dormito male,  come mi è sempre successo tutte le volte che ho ragionato intorno all’idea di partire.  Ma questa volta devo andare.  Qualsiasi cosa succeda,  non voglio permettermi di cambiare idea questa volta.

Apro la finestra per far entrare l’aria fresca del mattino e tirare un profondo respiro.  Su un ramo vicino al vetro si dondola un uccellino,  un merlo,  non è tanto diverso da un tordo islandese,  e mi fissa con occhi languidi,  un po’ malinconici.  Una nebbiolina aleggia sui campi e l’erba rugiadosa si china dolcemente al vento.  È stato un inverno duro,  ma infine è arrivata la primavera e un piacevole sulfureo profumo si alza dai boschi dove i mucchi di foglie sono ormai marci.  Gli alberi cominciano a rinverdire,  i rami abbandonano il grigiore invernale,  e la brezza stuzzica il chiocciare allegro del torrente aizzandolo a correre verso di noi come un postino che abbia buone notizie nella sacca.

Ieri notte mi sono svegliata e ho visto due cavalli giù al torrente.  Erano circa le tre del mattino.  Invece di accendere la luce,  mi sono avvolta nel caldo di una coperta e mi sono messa alla finestra a guardarli.  Si muovevano piano,  azzurri nel chiarore lunare.  Di colpo uno dei due si è come spaventato.  È balzato via per i campi ed è sparito dalla vista (…),  come se fosse svanito nell’aria.  Sono tornata a guardare il ruscello,  ma anche l’altro cavallo era sparito.  Non so perché,  senza ragione,  la cosa mi ha lasciato una strana apprensione,  e sono scesa in cucina (…).

Soffio sulla brace nel camino e ci appoggio due grossi ceppi ben secchi.  Il fuoco riscalda subito la stanza,  (…).  Il cane mi si strofina contro uggiolando poco convinto nella speranza che lo gratti dietro le orecchie,  e mi appoggia la testa in grembo mentre sto seduta davanti al fuoco.  Fuori si fa avanti la luce,  un pallido barbaglio azzurrastro che illumina la nebbia sui campi

 

Macino il caffè nel vecchio macinino e accendo il fornello sotto la caffettiera prima di salire a vestirmi.  Il cane mi segue su per le scale.  “Tina”,  le dico,  “mia cara vecchia signora,  vero che terrai d’occhio tutto quando io sarò via?”

 

Do un’occhiata fuori dalla finestra della camera.  Il sole si è alzato e i raggi hanno dissolto la nebbiolina sui campi con la gentilezza della carezza di una madre sulla guancia del suo bambino.  Questa volta vado.  Questa volta non voglio cambiare idea.

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MARIE TAKVAM

(Norvegia 1926 – 2008)

LA VECCHIA DISSE

Nessuna mano mi sfiora.

Nessuno sguardo si illumina per me.

Nessuna bocca si avvicina alla mia.

Nessuna parola ardente

danza nelle mie orecchie

e tempra

e riscalda il mio cuore.

 

Ora sono sola con il bosco

e con i fiori,

mi avvicino alla terra

giorno dopo giorno.

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KARIN MARIA BOYE

(Göteborg,  Svezia 1900 – 1941)

CERTO CHE FA MALE

Certo che fa male quando i boccioli si schiudono.

Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?

Perché dovrebbe tutta la nostra bruciante nostalgia

restare legata al pallido e amaro gelo?

Eppure il bocciolo fu involucro per tutto l’inverno.

Che cosa c’è di nuovo ora che intacca e preme?

Certo che fa male quando i boccioli si schiudono,

male a ciò che cresce

e a ciò che racchiude.

 

Certo che è difficile quando le gocce cadono.

Tremanti d’inquietudine stanno sospese,  scivolano

– il peso le trascina giù,  per quanto cerchino d’aggrapparsi.

Difficile essere incerti,  timorosi e divisi,

difficile sentire il baratro che attira e richiama

e tuttavia restare lì e solamente tremolare

– difficile volere restare e volere cadere.

 

Allora,  quando il peggio è arrivato e più niente aiuta,

si schiudono esultando i boccioli dell’albero.

Allora,  quando non c’è più il timore che trattiene,

le gocce sul ramoscello cadono scintillando,

dimenticano l’apprensione passata per il viaggio

– sentono per un attimo la loro più grande sicurezza,

riposano in quella fiducia

che crea il mondo.

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HENNING MANKELL

SCARPE ITALIANE

Il mare

1.

Il 19 marzo morì il mio cane.  Come sempre,  al mattino lo avevo lasciato uscire dalla cucina.  Potevo vedere chiaramente che soffriva e faceva fatica ad alzarsi dalla sua cesta.  Ma credevo sarebbe vissuto fino alla fine dell’estate.  (…).  Andai nella rimessa a cercare un attrezzo (…).  Mi sembrò strano che non mi avesse seguito,  ma non lo cercai.  Soltanto verso mezzogiorno mi resi conto che era sparito.  Anche il gatto sembrava perplesso.  Uscii e lo chiamai,  ma non arrivò.  Allora capii che doveva essere successo qualcosa.  Infilai una giacca e iniziai a cercarlo.  Dopo quasi un’ora lo trovai al lato opposto dell’isola,  vicino a una strana roccia che sembrava sbucare dal ghiaccio come una gigantesca colonna.  Era steso in un piccolo avvallamento protetto dal vento.  Non so per quanto tempo rimasi a osservarlo.  I suoi occhi erano aperti e brillavano come cristalli,  (…).

La morte arriva dappertutto,  non c’è nessun nascondiglio nella vita per sfuggirle.

Lo riportai a casa.  Era più pesante di quanto immaginassi.  Presi un piccone e una pala e riuscii a scavare una buca abbastanza grande nella terra sotto il melo.  Il gatto era rimasto sulla scala a osservare.  Il corpo era già rigido quando lo adagiai nella fossa e lo ricoprii di terra.

Appoggiai il piccone e la pala al muro della casa.  La foschia del mattino era tornata.  Ma ora erano i miei occhi che si annebbiavano.  La morte del mio cane mi addolorava.

Lo annotai nel mio diario e calcolai che aveva nove anni e tre mesi.  Lo avevo comprato ancora cucciolo da un vecchio pescatore in pensione che allevava cani di razza dubbia.

Per alcuni giorni pensai che avrei dovuto procurarmene uno nuovo.  Ma il futuro era troppo incerto.  Presto anche il gatto se ne sarebbe andato.  Allora niente mi avrebbe più legato all’isola,  a meno che non lo avessi voluto io stesso.

Scrissi a Harriet e anche a Louise per informarle della morte del cane.  E tutte e due le volte piansi.

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GYRÐIR ELÍASSON

 (Reykjavík,  Islanda 1961 – )

IMMAGINI IN BIANCO E NERO

Da un libro di uccelli dell’universo e del mondo interiore

Gli storni in fila

nella grigia recinzione

di fronte la casa grigia

nella nebbia

intraprendono il volo

Con le loro ali nere

dalla nebbia alla luce.

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BJÖRN LARSSON

IL PORTO DEI SOGNI INCROCIATI

II

13

   Madame Le Grand era appoggiata a uno dei giganteschi platani della piazza davanti alla cattedrale,  in disparte.  Era una di quelle sere in cui il buio sembrava calare prima del dovuto,  in cui la musica sembrava più malinconica e antica del solito,  come se le nuvole volessero risucchiarla e nasconderla per sempre dentro di loro.  Perché la musica bretone era così triste?  Sembrava quasi che fosse eseguita sull’estremo lembo della scogliera più occidentale della Bretagna,  nella speranza che qualcuno al di là dell’orizzonte potesse sentire il suo lamento.  Madame Le Grand pensava che facesse parte dell’anima bretone,  come si era formata nel tempo,  e che fosse dovuto alla certezza di appartenere a una cultura millenaria sul punto di sparire nel nulla e nell’oblio.  Dopo la guerra,  il numero di persone che parlavano il bretone come madrelingua era crollato da centomila a poche decine di migliaia.  Un’intera cultura,  un’intera lingua e un intero popolo erano andati in frantumi e si sentivano in via d’estinzione,  e lei stessa  non era che uno di quei frantumi.  Cosa poteva esserci di più triste?

Madame Le Grand restò a lungo sulla piazza dopo che le ultime note della malinconica musica di Barzaz si erano perse nel cielo senza stelle,  dove,  alla luce della torre illuminata di quella cattedrale costruita in onore di Dio coi proventi del gioco d’azzardo,  si indovinava la presenza di nuvole basse e sfilacciate.

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ROLF JACOBSEN

CRESCERE VERSO IL BASSO

(Tenk på noe annet  1979)

Quanto più grandi diventano le città
tanto più piccoli diventano gli uomini.
Quanto più alte le case puntano verso le nuvole
tanto più bassi diventano quelli che devono viverci.

A New York sei solo 10 cm.
A Londra e Singapore forse un piede inglese.

E le città crescono sempre più
e la tua vita vale sempre meno.

Presto saremo alti soltanto come ciuffi d’erba,
e potremo essere recisi con la falciatrice
di buon’ora una domenica mattina.
Tu che ne pensi?

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PÄR FABIAN LAGERKVIST

IL BOIA

(…) mi venne l’idea di partire e andare a parlare con Dio.

Lasciai la terra e mi inoltrai nei cieli,  dove almeno non si è circondati da quell’aria soffocante e nauseabonda.  Camminai e camminai,  non so per quanto tempo.  Viveva terribilmente lontano,  Dio.

Finalmente me lo vidi troneggiare davanti,  alto e possente negli spazi celesti.  Mi avvicinai fino al suo cospetto e appoggiai la mia mannaia insanguinata al suo trono.  “Sono stanco del mio mestiere!”  dissi.

“Non l’ho esercitato abbastanza?  Ora devi liberarmene!”

Ma lui rimase immobile,  come impietrito,  lo sguardo perso negli spazi.

“Senti.  Ne ho abbastanza del mio mestiere di boia!  Non lo sopporto più!  Non posso vivere nel sangue e negli orrori,  in tutto quanto tu lasci accadere!  E che senso ha,  me lo sai dire?  Ho servito fedelmente e ho fatto il possibile;  ora non ne posso più!  Non ce la faccio!  Ora basta!  Hai sentito?”

Ma lui neanche mi vedeva.  I suoi occhi sporgenti fissavano desolati e vuoti lo spazio,  come fosse un deserto.  Allora fui preso dal terrore e da una disperazione al di là delle mie forze.

Oggi ho crocifisso tuo figlio!”  gli urlai pazzo di rabbia.  Ma lui non alterò un solo tratto del suo volto duro e insensibile.  Era come scolpito nella pietra.

Rimasi lì,  in quel silenzio e in quel gelo,  e sentii il vento dell’eternità percorrermi col suo alito di ghiaccio.  Non c’era niente da fare.  Nessuno con cui parlare.  Niente.  Dovetti riprendermi la mannaia e tornare da dov’ero venuto.

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TOMAS TRANSTRÖMER

MISTERO PER LA STRADA

Si posò la luce del giorno sul viso di un uomo addormentato.

Gli giunse un sogno più vivido

ma non si svegliò.

 

Si posò l’oscurità sul viso di un uomo in cammino

tra la gente nei raggi di sole

forti e impazienti.

 

D’un tratto si fece buio come per il temporale.

Io ero in una stanza che conteneva tutti gli istanti –

un museo di farfalle.

 

Tuttavia il sole era forte come prima.

I suoi pennelli impazienti dipingevano il mondo.

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OLAV H. HAUGE

HO TRE POESIE

Ho tre poesie,

disse.

Pensa,  contare le poesie.

Emily le gettava

in un baule,  io

non credo proprio che le contasse,

apriva solo un pacchetto di tè

e ne scriveva una nuova.

Era giusto.  Una buona poesia

deve odorare di tè.

O di terra umida e legna appena tagliata.

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EINAR MÁR GUDMUNDSSON

ORME NEL CIELO

QUINTA PARTE

Capitolo venticinque

1

 La guerra civile spagnola scoppiò lo stesso anno in cui a Melavellir si tenne il primo campionato di boxe.  Kári si imbarcò sul motopeschereccio e fece conoscenza col mal di mare,  mentre Olli partì per la guerra e fece conoscenza con le trincee.

I leader comunisti tennero discorsi infuocati esortando i giovani militanti del partito a farsi avanti e a partire volontari per la Spagna.

I leader vedevano anche quel che stava accadendo negli altri paesi del Nord:  dalla Danimarca,  dalla Norvegia,  dalla Svezia e dalla Finlandia affluivano volontari al campo di battaglia.

Parlavano come se si trattasse di inviare dei rappresentanti a un incontro sportivo:  le Olimpiadi della libertà,  dove uomini feriti a morte tornavano in vita perché il fuoco dell’ideale non si spegneva nel loro petto.

Quel che contava ora era la solidarietà internazionale,  il reciproco aiuto tra lavoratori.

Cosa volevano i fascisti?  Il loro scopo era strappare quel bel paese dalle mani del Fronte del Popolo,  del governo repubblicano.  Il popolo oppresso si era sollevato,  la terra era stata distribuita ai contadini e le fabbriche erano state nazionalizzate.  In molte regioni del paese non si sapeva più chi detenesse il potere.

I fascisti erano spalleggiati dalla Germania e dall’Italia.  I loro aerei volavano come uccelli sopra ai villaggi e alle città gettando uova che esplodevano in vampate di fuoco.

“Il popolo chiama”,  tuonava Einar Olgeirsson,  e la sua voce echeggiava per la sala.  “Il fascismo deve essere sconfitto.  Il sangue dei martiri non scorre invano:  bagna i campi e infine sommergerà i carnefici.  Uomini giovani e intrepidi di tutto il mondo…”

Il cuore batteva nel petto dei giovani.  Qualcuno chinava la testa.  Tutti erano pensosi.  Olli e Ragnar erano infervorati dall’eloquenza del loro capo.  Ogni sua parola andava a segno.  Olli diede un colpetto a Ragnar.  Non era una cosa che li riguardava?  Questo dicevano i suoi occhi grandi e profondi.

Che cosa stavano a fare lì,  mentre la rivoluzione li aspettava laggiù?

Cosa offriva la società capitalistca islandese ai giovani,  oltre che starsene ad aspettare la fine del prossimo acquazzone?

Olli e Ragnar andarono a parlare con Einar Olgeirsson.

“Non abbiamo niente da perdere”,  disse Olli.

“Voi due sarete come un battaglione intero”,  disse Einar.  “Farete onore al partito e a tutto il popolo islandese.”

Olli guardò Ragnar.  Ragnar annuì.

Poco più tardi Eyjólfur Jóhannesson e Ragnar Ólafsson si arruolarono come volontari per salvare la repubblica spagnola.

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STEFÁN HÖRÐUR GRÍMSSON

(Hafnarfjörður,  Islanda 1919 – 2002)

GUERRA

Le loro armi sono grigie
le loro armi sono affilate.

Nella luna piena
onde rosse
converranno a riva.

Lacrime cadono sui fiori
ed essi appassiranno.

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GÖRAN  SONNEVI

TUTTO HA SIGNIFICATO

Tutto ha significato

Anche il mondo dello zero

Ti amo

anche con l’amore del niente

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AUGUST STRINDBERG

(Stoccolma,  Svezia 1849 – 1912)

FIABE

(Sagor   1903)

A MEZZESTATE

   A mezzestate,  quando la terra va sposa nel Nord,  e il terreno rallegra,  e la sorgente nuovamente sgorga,  e i fiori di campo stan ritti e gli uccelli cantano,  fu allora che la colomba venne dal bosco e si posò fuori dalla casetta dove la novantenne madre giaceva nel suo letto.

La vecchia giaceva già da vent’anni,  e attraverso la finestra poteva vedere tutto ciò che succedeva nel giardino che i suoi due figli coltivavano.  Ma vedeva il mondo e le persone nel suo modo particolare,  perché i vetri erano tinti di tutti i colori dell’arcobaleno;  bastava che piegasse un po’ la testa,  e tutto appariva di volta in volta rosso,  giallo,  azzurro,  lilla.

Così se era una giornata invernale,  quando gli alberi erano serrati nella galaverna come se portassero bianche foglie d’argento,  allora piegava la testa sul cuscino,  e gli alberi diventavano verdi;  se era estate,  il campo diventava giallo e il cielo azzurro,  benché in realtà fosse grigio.  In questo modo si immaginava capace di fare magie;  e non si annoiava mai.  Ma i vetri magici avevano anche un altro dono;  erano infatti ondulati,  e così mostravano quel che c’era fuori a volte ingrandito,  a volte rimpicciolito.

Così quando il suo figlio maggiore tornava a casa ed era cattivo,  e urlava giù nel giardino,  la madre lo avrebbe voluto di nuovo piccolo e buono;  e subito lo vedeva piccolo così.  Oppure quando i nipotini arrivavano trotterellando lì davanti,  e lei pensava al loro futuro,  allora – un,  due,  tre – passavano nel vetro ingranditore e lei li vedeva uomini fatti,  persone grandi,  veri giganti.

Ma quando arrivava l’estate,  faceva aprire la finestra:  infatti,  bello com’era allora l’esterno,  i vetri non potevano mostrarlo.

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ROLF JACOBSEN

ORA

Adesso ora

se tu leggi

prima di dimenticarti di tutto.

Ora

passa un pezzettino d’infinito,

la millesima parte di un secondo

passa attraverso le tue mani, attraverso gli occhi,

come farfalla di neve, come perle che rotolano,

una freccia lanciata nell’aria,

prima che cada.

La punta di tutto quello che è stato

e che non è mai stato.

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HENRYK JOHAN IBSEN

L’ALBATRO

L’albatro vive solamente ai confini della terra:

l’ho saputo da un vecchio marinaio.

 

Tuffa le sue grandi ali nella schiuma del mare

e scivola sulle onde senza mai attraversarle.

 

Discende e risale col mare.

Tace quando il tempo è bello,  ma grida durante la tempesta.

 

Come il sogno,  è sospeso fra il cielo e l’abisso

così questo uccello non nuota e non vola.

 

Più pesante dell’aria e più leggero dell’onda,

uccello poeta,  uccello poeta,  ecco il tuo destino.

 

Ma il doloroso è che per i più sapienti

queste sono favole di marinaio.

 

Dedicato a Pier Giorgio Gili  (5 Febbraio 1935 – 25 Agosto 2014)

Una vita per il Teatro

 23 Febbraio 2016