VOCES DE TIERRAS LEJANAS

LETTURE DA AUTORI LATINO-AMERICANI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Dedico questa Antologia a mi amigo lejano il Poeta argentino Rodolfo Alonso (lontano,  ma anche così vicino) con tutta la mia stima e con il più grande affetto.

Ezio

En un carro de olvido,

antes de aclarar,

de una estación del tiempo

decidido a rodar,

Run Run se fue pa’l norte,

no sé cuando vendrá;

vendrá para el cumpleaños

de nuestra soledad.

Violeta Parra

(San Carlos,  Cile 1917 – 1967)

MARCELA SERRANO

(Santiago del Cile 1951 – )

QUEL CHE C’È NEL MIO CUORE

(Lo que está en mi corazón   2001)

Prima parte

ORFANE DELL’APOCALISSE

VENERDÌ

6.

 

   Mi fermo in fondo alla strada acciottolata lungo la quale sto camminando;  è proprio vero,  le sere in città,  prima che il sole tramonti,  sembrano lavate a mano.  Eccola lì San Cristóbal de las Casas,  unica e mutevole,  serena grazie alla protezione del suo patrono San Cristóbal,  al quale è stata affidata da Pedro de Alvarado,  durante il suo breve soggiorno qui;  Alvarado era uno degli uomini più attivi e ambiziosi della truppa che accompagnava Hernán Cortés.  Narra la leggenda che il patrono, uomo grande nel fisico e nelle ambizioni,  deluso da un re che avrebbe voluto servire,  si recò in una terra remota alla ricerca di un destino migliore e laggiù,  una notte,  seguendo il proprio intuito,  fece attraversare il fiume a un bambino piccolo,  portandolo sulle spalle.  Fece una grande fatica,  tanto che giunse stremato all’altra riva.  Il bambino gli disse:  “Capisco la tua fatica:  ti sei caricato sulle spalle il mondo intero,  perché io sono Gesù Cristo,  il maestro che vai cercando.”  Ha avuto ragione Pedro de Alvarado ad affidare a San Cristóbal un secondo carico altrettanto oneroso,  il carico di tutti i dolori e le sofferenze dei popoli indios più poveri e sfruttati del continente,  quelli che hanno abitato e sofferto sugli Altos de Chiapas.  Forse anch’io dovrei affidarmi a lui,  perché capisco,  in un attimo di lucidità,  che questa città mi è entrata nella carne senza il mio consenso e ora non voglio abbandonarla.

.

OCTAVIO PAZ

(Città del Messico 1914 – 1998)

 

DIRE:  FARE

(Decir:  hacer)

A Roman Jacobson

1

Tra ciò che vedo e dico,

tra ciò che dico e taccio,

tra ciò che taccio e sogno,

tra ciò che sogno e scordo,

la poesia.

Scivola

tra il sì e il no:

dice

ciò che taccio,

tace

ciò che dico,

sogna

ciò che scordo.

Non è un dire:

è un fare.

È un fare

che è un dire.

La poesia

si dice e si ode:

è reale.

E appena dico

è reale,

si dissipa.

È più reale,  così?

 

2

Idea palpabile,

parola

impalpabile:

la poesia

va e viene

tra ciò che è

e ciò che non è.

Tesse riflessi

e li disfa.

La poesia semina occhi nella pagina,

semina parole negli occhi.

Gli occhi parlano,

le parole guardano,

gli sguardi pensano.

Udire

i pensieri,

vedere

ciò che diciamo,

toccare

il corpo dell’idea.

Gli occhi

si chiudono,

le parole si aprono.

.

VICENTE HUIDOBRO

(Santiago del Cile 1893 – 1948)

PARTENZA *

(Depart)

 

La barca si allontanava

Sulle onde concave

 

Da che gola senza piume

Sgorgavano le canzoni

 

Una nube di fumo e un fazzoletto

Sbattevano al vento

 

I fiori del solstizio

Fioriscono a vuoto

 

E invano abbiamo pianto

Senza poterli cogliere

 

L’ultimo verso mai sarà cantato

 

Alzando un bambino al vento

Una donna diceva addio dalla spiaggia

 

Tutte le rondini si ruppero le ali.

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ABILIO ESTÉVEZ

(La Habana,  Cuba 1954 – )

I PALAZZI LONTANI

(Los palacios distantes   2002)

Parte prima

1

(…) Victorio deve fare presto,  salire la scala a chiocciola,  di legno pregiato,  lavorato con maestria ai tempi in cui ogni lavoro richiedeva pazienza.  Esce sul tetto a terrazza e non appena spinge la porticina sgangherata,  che è una banderuola in balìa di tutti i venti,  vede lo spettacolo dell’alba,  avvenimento che non comporta meno sorprese per essere visto ogni giorno.  Tetti dell’Avana,  con i primi barbagli.  Le terrazze,  inoffensive adesso,  non aggrediscono ancora con i loro riverberi,  e permettono agli occhi di passeggiarvi sopra tranquillamente.  Non assomigliano affatto alle terrazze che saranno a mezzogiorno,  quando il sole incrudelisce sulle mattonelle,  le tegole,  i pezzi di lamiera e di ardesia,  e non si riesce a guardarle.  La fiamma perenne della raffineria di petrolio.  Palazzo Bacardi.  Cupola del Campidoglio.  Campanile della Chiesa dello Spirito Santo.  Un po’ più a sinistra,  in lontananza,  l’altra cupola della Lonja del Comercio,  senza il Mercurio,  abbattuto al suolo e privato della sua missione di messaggero dalla furia indifferente dei cicloni.  Il mare non si vede,  ma lo si intuisce.  Pertanto la nave che in questo preciso istante imbocca la baia,  passa in mezzo a edifici e monumenti,  come la quinta mobile di una misera operetta.  Verso questo mare invisibile ma presente proprio adesso sta volando uno stormo di colombi,  di aironi o di gabbiani,  e non si capisce se siano bianchi,  grigi o neri.  Si sente una sirena:  potrebbe essere sia un treno che una nave.  E siccome l’Avana è sempre stata una città sorprendente,  canta qualche gallo.  A Victorio la città suscita due impressioni allo stesso tempo:  quella di una città bombardata,  che aspetta solo uno scroscio di pioggia,  uno sbuffo di vento per disfarsi in un mucchio di pietre;  e quella di una città sontuosa ed eterna,  appena sorta,  eretta come lascito a future immortalità.  L’Avana non è mai uguale ed è sempre uguale.  L’alba dell’Avana possiede infiniti modi di apparire sempre la stessa,  diversa ed identica,  con il colore indistinto del cielo,  le sue tonalità incerte che seguono le nubi bianche,  basse,  precise,  veloci;  e con la brezza dell’alba,  sempre scarsa,  ma che riesce a planare sulla città come un immenso uccello benefattore.

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LUCIA MUÑOZ

(Bayamo,  Cuba 1953 – )

UN POCHINO D’ACQUA

Nel cavo della tua mano

giaccio,

dolcemente accoccolata

fuggendo dal vento della notte,

da tutti i rumori del mondo,

che mi fanno male,

per essere sempre

questo pochino d’acqua nella tua mano,

e spegnere eternamente la tua sete.

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GONZALO ROJAS

(Lebu,  Cile 1916 – 2011)

 

SUBLIME OSCURITÀ *

(Oscuridad hermosa)

 

Stanotte ti ho toccata e ti ho sentita

senza che la mia mano fuggisse più in là della mia mano,

senza che il mio corpo fuggisse,  né il mio udito:

in un modo quasi umano

ti ho sentita.

 

Palpitante,

non so se come sangue o come nube

errante,

per la mia casa,  in punta di piedi,  oscurità che sale,

oscurità che scende,  corresti,  scintillante.

 

Corresti per la mia casa di legno

le sue finestre apristi

e ti sentii palpitare la notte intera,

figlia degli abissi,  silenziosa,

guerriera,  tanto terribile,  tanto bella

che tutto quanto esiste,

per me,  senza la tua fiamma,  non esisterebbe.

.

MARIO VARGAS LLOSA

(Arequipa,  Perù 1936 – )

LA CITTÀ E I CANI

(La ciudad y los perros   1962)

Parte prima

3

   Nella casa d’angolo,  al termine del secondo isolato della via Diego Ferré e della Ocharán,  c’è un muro bianco,  alto un metro e lungo dieci,  in ognuna delle due strade.  Proprio nel punto dove convergono i due muri c’è un palo della luce,  sul bordo del marciapiede.  Il palo e il muro parallelo servivano da porta a una delle squadre,  quella che vinceva a pari e dispari;  la squadra perdente doveva costruire la sua porta cinquanta metri più in là,  verso la Ocharán,  mettendo un sasso o un mucchio di maglioni o di giacche sull’orlo del marciapiede.  Ma,  benché le porte fossero larghe quanto il marciapiede,  la partita si svolgeva su tutta la larghezza della strada.   Giocavano a calcio ridotto.  Tutti avevano le scarpe da basket,  come si usava nelle partite del Club Terrazas e non gonfiavano troppo il pallone per evitare i rimbalzi.  Generalmente giocavano raso terra,  facendo passaggi corti,  tirando in porta da vicino e non troppo forte.  Il limite era segnato con un pezzo di carbone,  ma dopo pochi minuti di gioco,  a furia di passarci sopra con le scarpe e col pallone,  la linea spariva e c’erano discussioni interminabili prima di stabilire se un goal era valido oppure no.  La partita si svolgeva in un’atmosfera di orecchie tese e di timore.  Certe volte,  nonostante le precauzioni,  non si poteva evitare che Pluto o altri scalmanati tirassero un calcio violento o addirittura colpissero di testa e allora la palla sorvolava uno dei muri delle case situate ai limiti dell’area di gioco,  entrava nel giardino,  schiacciava i gerani e,  se l’impulso era particolarmente violento,  andava a sbattere forte contro la porta o contro una finestra,  caso critico,  e la faceva tremare o mandava in pezzi un vetro,  e allora,  con un urlo che voleva essere anche un addio al pallone,  i giocatori se la davano a gambe.  Fuggivano,  e durante la corsa Pluto continuava a gridare,  “Ci inseguono,  ci stanno inseguendo.”  E nessuno si girava per vedere se era vero,  ma tutti acceleravano e ripetevano:  “Presto,  ci inseguono,  hanno chiamato la polizia”,  e a quel punto Alberto,  che era alla testa dei fuggiaschi,  mezzo soffocato dallo sforzo,  gridava:  “Alla scogliera,  andiamo alla scogliera.”  E tutti lo seguivano,  dicendo:  “Sì,  sì,  alla scogliera”,  e Alberto sentiva attorno a sé la respirazione affannosa dei suoi compagni,  quella di Pluto,  esagerata e animalesca,  quella di Tico,  breve e ritmata;  quella di Bebe,  sempre più fioca perché era il meno veloce di tutti;  quella di Emilio,  una respirazione tranquilla,  da atleta che misura scientificamente lo sforzo inspirando col naso ed espirando dalla bocca,  e,  vicino,  quella di Paco,  quella di Sorbino,  quella di tutti gli altri,  un rumore sordo,  vitale,  che lo circondava e gli dava il coraggio di avanzare sempre più in fretta lungo il secondo isolato della Diego Ferré e raggiungere l’angolo della Colón e piegare a destra,  sfiorando il muro per trarre profitto dalla curva.  Poi,  la strada era più facile perché la Colón è in discesa e perché,  a meno di un isolato,  si scorgevano i mattoni rossi dell’Argine e,  sopra l’Argine,  confuso con l’orizzonte,  il mare grigio che avrebbero ben presto raggiunto.

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ROBERTO BOLAÑO ÁVALOS

(Santiago del Cile 1953 – 2003)

I DETECTIVE SMARRITI

(Los detectives perdidos)

I detective smarriti nella città oscura.

Udii i loro gemiti.

Udii i loro passi nel teatro della gioventù.

Una voce che avanza come una freccia.

Ombra di caffè e parchi

frequentati nell’adolescenza.

I detective che osservano

le loro mani aperte,

il destino macchiato dal proprio sangue.

E tu non puoi nemmeno ricordare

dove si trovava la ferita,

i volti che una volta amasti,

la donna che ti salvò la vita.

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VICENTE HUIDOBRO

(Santiago del Cile 1893 – 1948)

BALLATA DI QUELLO CHE NON TORNA *

(Balada de lo que no vuelve)

 

Veniva verso di me con il sorriso

Per la strada della sua grazia

E cambiava le ore del giorno

Il cielo della notte si trasformava nel cielo dell’alba

Il mare era un albero frondoso pieno di uccelli

I fiori davano rintocchi di allegria

E il mio cuore si metteva a profumare impazzito.

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FRANCISCO COLOANE

 (Quemchi,  Cile 1910 – 2002)

I BALENIERI DI QUINTAY

(Golfo de Penas   1945)

SULLA FAMOSA REGIONE ANTARTICA

C’è un mare più desolato di tutti gli altri dell’Antartico;  più desolato dello stesso mare di Drake,  o del Pacifico;  è il mare di Bellingshausen.  Bellingshausen,  navigatore russo,  fu il primo a percorrere l’Antartico,  e il mare che lambisce il Polo Sud sul versante ovest porta il suo nome.

Ci avventuriamo su quel mare di notte e subito un’onda sconosciuta comincia a far ballare l’Angamos,  perché le onde sono diverse tra loro sui differenti mari.  Conosciamo quella lunga ed estesa dell’Oceano Pacifico,  quella più corta e salterina dell’Atlantico,  forse dovuta al letto pianeggiante.  Quella del mare di Bellingshausen è montagnosa.

L’Angamos avanza a tutta velocità,  con i boccaporti chiusi e ogni cima ben legata,  come un combattente che si è preparato ad affrontare una lunga battaglia.  Il bastimento,  dalla piacevole linea e la prua alta,  di costruzione svedese,  è adatto alla navigazione in alto mare con burrasche,  e la parte emersa domina magnificamente le tre grandi onde che seguono sempre le tre più piccole nel ritmo di una tempesta.

Siamo usciti in coperta per osservare la burrascosa notte antartica;  è nera come la bocca di un lupo;  le luci della nave,  soltanto quelle regolamentari,  producono una vaga penombra in cui si scorge il dorso scuro delle onde che la prua dell’Angamos fende formando rose di spuma.

(…) la rotta più vicina percorsa dalle navi è lo Stretto di Magellano.  Da quelle parti potrebbe aggirarsi una compagna dell’Angamos;  ma se dovessimo trovarci in pericolo e lanciare un SOS,  ci impiegherebbe una settimana per arrivare in queste acque e soccorrerci.

Spesso l’immaginazione è simile all’onda che produce un sasso caduto nell’acqua e che si allontana per stabilire la prospettiva e riconoscere il luogo da dove è partita o dove si trova.  Prendiamo in considerazione l’Angamos,  che non è altro che un guscio di noce solitario intento a solcare le montagne d’acqua nel mare di Bellingshausen;  in alto mare,  in questa ora prossima alla mezzanotte,  l’immaginazione vola e percorre altre latitudini,  dove si trova il calore della terra,  il rifugio che ci offre l’umanità;  persino il suono fastidioso dei clacson,  l’andirivieni degli autobus e il frastuono della città diventano una nostalgica musica lontana.  E sentiamo più profondamente ciò che potremmo chiamare il dolore della distanza,  la malinconica apprensione dell’isolamento.  Il mare,  la notte,  la solitudine,  sono qui,  con un’infinità di ombre sommerse;  la nave ansima tra onda e onda e il ritmo delle macchine,  il rumore sincopato di qualche cardine è l’unica voce,  l’unica “anima” in mezzo a questa immensità selvaggia,  caotica.

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MIGUEL ÁNGEL ASTURIAS

(Città del Guatemala,  Guatemala 1899 – 1974)

 

LA SUA TRISTEZZA ERA SOAVE *

(Su tristeza era suave)

 

La sua tristezza era soave,

come il colore di un giglio.

E il suo dolore aveva conosciuto

i primi innamorati

che abitarono il pianeta.

 

Per questo ora

che si eran separati

cominciarono

a stare

più vicini

che mai

l’uno all’altro.

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MARCELA SERRANO

ADORATA NEMICA MIA

(Mi dulce enemiga   2013)

 

LA SUA BUSSOLA

(O IL GIORNO DELLA MORTE DI PINOCHET)

   Quel lunedì albeggiava in uno strano silenzio,  un silenzio denso e come saturo,  quasi mancasse un respiro ben preciso,  quasi l’assenza di quel respiro alterasse la composizione dei suoni.  María Bonita sentì che quella mattina era diversa da tutte le mattine degli ultimi trentatré lunghi anni.

Sedersi davanti alla televisione,  guardare il funerale,  cercare di capire i fanatici del corteo.  Ma scendere in piazza,  no.  Molti del suo paese sarebbero andati in centro per festeggiare la morte del dittatore.  Invece lei non era nello spirito festaiolo.  Quanto aveva atteso questo momento,  ogni giorno,  ognuno dei lunghi giorni di tutti questi lunghi anni.  Aveva sempre creduto che il corpo di Manuel sarebbe ricomparso prima del momento in cui avrebbero annunciato la sua morte.  (…),  non può farmi lo scherzo di crepare prima.  Il giorno precedente,  un’assolata domenica di dicembre,  dopo avere sentito la notizia,  pensò costernata:  e adesso?  (…).  Aveva sempre immaginato che sarebbe stata la prima a uscire per festeggiare il momento in cui sarebbe accaduto,  (…).  E invece quando quel momento era arrivato,  le sue gambe erano diventate due blocchi di cemento,  pesanti,  inamovibili,  come se uno stregone maligno le avesse rubato il cervello,  e l’immobilità si estendesse a tutto il corpo.  Seduta sulla vecchia e consunta poltrona verde,  le immagini sullo schermo e quelle della sua vita si fondevano insieme.  Guardava il feretro circondato da uomini in uniforme ma era Manuel che vedeva,  il giorno delle nozze,  il giorno in cui Allende fu eletto,  il giorno in cui lo vennero a prendere e non tornò mai più.

   María Bonita aveva preso l’abitudine di svegliarsi la mattina con il pensiero che un altro respiro aleggiava sulla città,  ed era il respiro del suo nemico giurato.  La sua sola esistenza le iniettava il potere dell’energia.  Quando quel respiro si trasferì negli ospedali di Londra,  temeva che non lo avrebbe più percepito,  invece ogni mattina l’oceano glielo riportava a casa,  attraversava diligentemente il mondo per arrivare ai suoi orecchi.  Da lontano,  eppure arrivava.  E adesso?  tornò a domandarsi.  Domani lo seppelliranno e dopodomani i giornali parleranno d’altro,  (…),  la vita andrà avanti e lui non respirerà più ogni mattina.  E io?

(…),  María Bonita ebbe un brivido.  Scorgeva la verità:  la sua bussola era il suo nemico.  E il nemico era morto.

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OCTAVIO PAZ

 

PASSAGGIO

(Pasaje)

 

Più che aria

Più che acqua

Più che labbra

Leggera leggera

 

Il tuo corpo è l’orma del tuo corpo

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JULIO CORTÁZAR

(Bruxelles,  Belgio 1914 – 1984  Argentino)

BESTIARIO

(Bestiario)

LE PORTE DEL CIELO

(Las puertas del cielo)

   “Chi lo avrebbe mai detto,”  (…).

“Tutto così in fretta…”

“Sapevi bene che era molto malata ai polmoni.”

“Sì,  però…”

(…).  I polmoni molto malati,  però…  Neppure Celina aveva creduto di dovere morire,  per lei e per Mauro la tubercolosi era “debolezza”.  La vidi di nuovo girare entusiasta fra le braccia di Mauro,  l’orchestra di Canaro là sopra e odor di cipria a buon mercato.  Dopo ballò con me una machicha,  la pista era uno spavento di gente e di caligine.  “Come balla bene,  Marcelo”  come meravigliata che un avvocato sapesse ballare una machicha.  Né lei né Mauro mi diedero mai del tu,  io davo del tu a Mauro,  ma a Celina mi rivolgevo sempre con il lei.  A Celina costò fatica lasciare il “dottore”,  forse la inorgogliva chiamarmi dinanzi agli altri “il mio amico dottore”.  Dovetti chiedere a Mauro che gielo dicesse,  e allora cominciò con il “Marcelo”.  In questo modo loro si avvicinavano un po’ a me,  ma io rimanevo lontano come prima.  Neppure se andavamo insieme ai balli popolari,  alla boxe,  perfino alle partite di pallone (Mauro aveva giocato anni prima nel Rácing) o sorseggiavamo il mate fino a tardi in cucina.  Quando la causa finì e feci guadagnare cinquemila pesos a Mauro,  Celina per prima mi chiese di non allontanarmi,  di andarli a trovare.  Già allora non stava bene,  la sua voce sempre un po’ rauca si andava affievolendo sempre più.  Di notte tossiva,  Mauro le comperava il Neurofosfato Escay,  il che era una stupidaggine,  e anche il Ferrochina Bisleri,  cose che si leggono sulle riviste e nelle quali ci si abitua ad avere fiducia.

Andavamo insieme a ballare e io li guardavo vivere.

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RODOLFO ALONSO

(Buenos Aires,  Argentina 1934 – )

IL FONDO DELLA NOTTE **

(El fondo de la noche)

 Suona acuto un ubriaco nella profonda notte

con la coscienza in lutto.

 

Non é un solo ubriaco,  é

tutto l´alcol del mondo che sta cantando in coro

per il sogno perduto.  Non é

il passeggero di sempre né la circostanza

conosciuta.  É lo scacco di vivere,  la rabbia

essere stato fatto,  la sete di durare.

 

Intorno all’ubriaco della notte

fredde nostalgie girano,  discorsi,  aspre negoziazioni.

E non c´é niente d´amore in tutto ciò.

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GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

(Aracataca,  Colombia 1927 – 2014)

DODICI RACCONTI RAMINGHI

(Doce Cuentos Peregrinos   1992)

PREMESSA

Avevo sognato di assistere al mio funerale,  a piedi,  camminando in mezzo a un gruppo di amici vestiti a lutto stretto,  ma in vena di bagordi.  Sembravamo tutti felici di stare insieme.  E io più di ogni altro,  per via di quella grata occasione che mi offriva la morte di ritrovarmi con i miei amici dell’America latina,  i più vecchi,  i più amati,  quelli che non vedevo da più tempo.  Al termine della cerimonia,  mentre cominciavano ad andarsene,  io avevo tentato di seguirli,  ma uno di loro mi aveva fatto notare con una severità risoluta che per me la festa era finita.  “Sei l’unico che non può andarsene”  mi aveva detto.  Solo allora avevo capito che morire è non ritrovarsi mai più con gli amici.

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JULIO CORTÁZAR

BESTIARIO

CASA OCCUPATA

(Casa tomada   1945)

   Ci piaceva la casa perché oltre ad essere spaziosa e antica (…) conservava i ricordi dei nostri bisavoli,  del nonno paterno,  dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia.

Ci abituammo,  Irene ed io,  ad abitarvi da soli,  cosa che era una follia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio.

A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo.

Come potrei dimenticare la distribuzione della casa.  La stanza da pranzo,  una sala con arazzi,  la biblioteca e tre grandi camere da letto rimanevano nella parte più interna (…).  Solo un corridoio con la sua massiccia porta di rovere isolava quella parte dall’ala frontale dove si trovavano un bagno,  la cucina,  le nostre camere da letto e il living centrale,  (…).  Si entrava nella casa attraversando un atrio con maioliche,

Lo ricorderò sempre con precisione e senza particolari inutili.  Irene stava lavorando a maglia in camera sua,  erano le otto di sera e all’improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate.  Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa,  e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca.  Lo udii anche,  nello stesso momento o un secondo più tardi,  in fondo al corridoio che andava da quelle stanze alla porta.  Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi,  la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo;  fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte e inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.

Andai in cucina,  scaldai il bricco,  e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:

“Ho dovuto chiudere la porta del corridoio.  Hanno occupato la parte in fondo.”

Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.

“Ne sei sicuro?”

Annuii.

“Allora,”  disse raccogliendo i ferri,  “dovremo vivere da questo lato.”

I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo.  I  miei libri di letteratura francese,  per esempio,  erano tutti nella biblioteca.

Frequentemente (ma questo accadde solo nei primi giorni) chiudevamo qualche cassetto dei comò e ci guardavamo con tristezza.

“Qui non c’è.”

Ed era una cosa in più di tutto quel che avevamo perduto all’altro lato della casa.

Le nostre camere da letto erano divise dal living,  ma di notte si sentiva tutto nella casa.  Ci sentivamo respirare,  tossire,  presentivamo il gesto che conduce all’interruttore della lampadina,  le mutue e frequenti insonnie.

A parte questo,  tutto era silenzioso nella casa.

È quasi come ripetere la stessa cosa,  (…).  Di notte mi viene sete,  e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d’acqua.  Dalla porta della camera da letto (lei lavorava a maglia) udii il rumore in cucina;  forse nella cucina o forse nel bagno perché il gomito del corridoio spegneva i suoni.  Irene fu colpita dal modo brusco con cui mi fermai,  e venne accanto a me senza dire una parola.  Restammo ad ascoltare i rumori,  notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere,  nella cucina e nel bagno,  o nello stesso corridoio,  dove incominciava il gomito quasi al nostro fianco.

Non ci guardammo neppure.  Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra,  non ci voltammo indietro.  I rumori si udivano sempre più forti ma sempre sordi,  alle nostre spalle.  Chiusi d’un colpo la porta e restammo nell’atrio.  Ora non si udiva nulla.

“Hanno occupato questa parte,”  disse Irene.  Il lavoro a maglia le pendeva dalle mani e i fili arrivavano fino alla porta e vi si perdevano sotto.  Quando vide che i gomitoli erano rimasti dall’altro lato lasciò cadere il lavoro senza guardarlo.

“Hai avuto tempo di portare via qualcosa?”  le domandai inutilmente.

“No,  niente.”

Restavamo con quel che avevamo indosso.  Mi ricordai dei quidicimila pesos nell’armadio della mia camera da letto.  Troppo tardi ormai.

Poiché mi era rimasto l’orologio da polso,  vidi che erano le undici di sera.  Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada.  Prima che ci allontanassimo,  ebbi pietà,  chiusi bene la porta d’entrata e gettai la chiave nel tombino.  Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa,  a quell’ora e con la casa occupata.

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JULIO NUMHAUSER

(Cile 1940 – )

TUTTO CAMBIA

(Todo cambia)

Cambia ciò che è superficiale

e anche ciò che è profondo

cambia il modo di pensare

cambia tutto in questo mondo.

 

Cambia il clima con gli anni

cambia il pastore il suo pascolo

e così come tutto cambia

che io cambi non è strano.

 

Cambia il più prezioso brillante

di mano in mano il suo splendore

cambia il nido l’uccellino

cambia il sentimento degli amanti.

 

Cambia direzione il viandante

sebbene questo lo danneggi

e così come tutto cambia

che io cambi non è strano.

 

Cambia,  tutto cambia

cambia,  tutto cambia

cambia,  tutto cambia

cambia,  tutto cambia.

 

Cambia il sole nella sua corsa

quando la notte persiste

cambia la pianta e si veste

di verde in primavera.

 

Cambia il manto della fiera

cambiano i capelli dell’anziano

e così come tutto cambia

che io cambi non è strano.

 

Ma non cambia il mio amore

per quanto lontano mi trovi

né il ricordo né il dolore

della mia terra e della mia gente.

 

E ciò che è cambiato ieri

di nuovo cambierà domani

così come cambio io

in questa terra lontana.

 

Cambia,  tutto cambia

cambia,  tutto cambia

cambia,  tutto cambia

cambia,  tutto cambia.

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FACUNDO CABRAL

(La Plata,  Argentina 1937 – 2011)

NON SONO DI QUI E NON SONO DI LÀ *

(No soy de aquí,  ni soy de allá   1970)

 

Mi piace il sole,  Alicia e le colombe,

un buon sigaro e la Chitarra spagnola,

scavalcare i muri e aprire le finestre

e quando piange una donna.

 

Mi piace il vino proprio come i fiori

ed i conigli ma non i trattori

ed il pane fatto in casa e la voce di Dolores

ed il mare che mi bagna i piedi.

 

Non sono di qui e non sono di là

non ho età né futuro

ed essere felice

è la mia identità.

 

Mi piace starmene disteso sulla sabbia

o inseguire in bicicletta Manuela

o passare il tempo a guardare le stelle

con la Maria nel campo di grano.

 

Non sono di qui e non sono di là

non ho età né futuro

ed essere felice

è la mia identità.

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LUIS SEPÚLVEDA

(Ovalle,  Cile 1949 – )

STORIA DI UNA GABBIANELLA E DEL GATTO CHE LE INSEGNÒ A VOLARE

(Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar   1996)

Parte Seconda

 

Capitolo Settimo

IMPARANDO A VOLARE

   Fortunata era lì,  in procinto di tentare il suo primo volo,  perché durante l’ultima settimana si erano verificati due episodi grazie ai quali i gatti avevano capito che la gabbiana voleva volare,  anche se nascondeva molto bene il suo desiderio.

 

Il primo fatto era avvenuto un pomeriggio in cui Fortunata aveva accompagnato i gatti a prendere il sole sul tetto del bazar di Harry.  Dopo un’ora che erano lì,  a crogiolarsi ai raggi del sole,  avevano visto volare in alto,  molto in alto,  sopra di loro,  tre gabbiani.

Spiccavano,  belli e maestosi,  nel cielo blu.  A tratti sembravano paralizzarsi,  limitandosi a fluttuare nell’aria con le ali tese,  ma bastava un lieve movimento perché si spostassero con una grazia e un’eleganza che facevano invidia,  e anche voglia di starsene lassù con loro.  All’improvviso i gatti smisero di fissare il cielo e si voltarono a guardare Fortunata.  La gabbianella osservava il volo dei suoi simili,  e senza rendersene conto spiegava le ali.

“Guardate.  Vuol volare”  Commentò Colonnello.

“Sì.  È ora che voli”  riconobbe Zorba.  “Ormai è una gabbiana grande e forte.”

“Fortunata.  Vola!  Prova!”  suggerì Segretario.

Quando sentì i miagolii dei suoi amici,  Fortunata ripiegò le ali e si avvicinò a loro.  Si sdraiò accanto a Zorba e iniziò a far risuonare il becco imitando le fusa.

Il secondo episodio era accaduto il giorno successivo,  mentre i gatti ascoltavano una storia di Sopravento.

“…  e come vi miagolavo,  le onde erano così alte che non potevamo vedere la costa,  e…   per il grasso del capodoglio!  colmo delle disgrazie,  la nostra bussola era impazzita.  Cinque giorni e cinque notti passammo in mezzo alla burrasca e non sapevamo se stavamo navigando verso la costa o se ci allontanavamo in mare aperto.  Ma proprio allora,  quando ci sentivamo ormai perduti,  il timoniere avvistò uno stormo di gabbiani.  Che gioia,  compagni!  Puntammo la prua nella stessa direzione in cui volavano e riuscimmo a raggiungere la terraferma.  Per i denti del barracuda!  Quei gabbiani ci salvarono la vita.  Se non li avessimo visti,  ora non sarei qui a miagolarvi la storia.”

Fortunata,  che seguiva sempre con molta attenzione i racconti del gatto di mare,  lo ascoltava con gli occhi spalancati.

“I gabbiani volano anche nei giorni di burrasca?”  chiese.

“Per le scariche della torpedine!  I gabbiani sono i volatili più robusti dell’universo”  assicurò Sopravento.  “Non c’è uccello che sappia volare meglio di un gabbiano.”

I miagolii del gatto scendevano nel profondo del cuore a Fortunata.  Batteva le zampe per terra e muoveva nervosamente il becco.

“Vuoi volare,  signorina?”  indagò Zorba.

Fortunata li guardò a uno a uno prima di rispondere.

“Sì.  Per favore,  insegnatemi a volare.”

I gatti miagolarono la loro gioia e subito misero zampa al lavoro.  Attendevano quel momento da molto tempo.  Con tutta la pazienza che contraddistingue i gatti,  avevano aspettato che la gabbianella comunicasse loro il suo desiderio di volare,  perché grazie a un’ancestrale saggezza capivano che volare è una decisione molto personale.

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ALFONSINA STORNI MARTIGNONI

(Sala Capriasca,  Svizzera 1892 – Mar del Plata,  Argentina 1938)

 

UOMO PICCOLINO *

(Hombre pequeñito)

 

Uomo piccolino,  uomo piccolino,

libera il tuo canarino che vuole volare.

Io sono il tuo canarino,  uomo piccolino,

lasciami venir via.

 

Stetti nella tua gabbia,  uomo piccolino,

uomo piccolino che mi metti in gabbia.

Dico piccolino perché non mi capisci

nè mi capirai.

 

Neppur io ti capisco,  ma intanto

aprimi la gabbia,  che voglio scappare;

Uomo piccolino,  ti amai per mezz’ora,

non chiedermi di più.

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VIOLETA PARRA

NEI GIARDINI UMANI *

(En los jardines humanos   1962-1963)

Nei giardini umani

che adornano tutta la terra

voglio fare un mazzolino

di amore e di dolcezza.

 

È una barca di amori

che trascina la mia anima

e si annida nei porti

come una colomba bianca.

 

Lasciatemi tagliare

Il fiore della comprensione,

l’erba della speranza,

la fogliolina del sentimento.

 

Nel centro del mio mazzolino

la rosa del cuore,

l’albero più amichevole

ed il fiore della passione.

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ABILIO ESTÉVEZ

I PALAZZI LONTANI

Parte prima

4

   Se in questa città c’è qualcosa che non manca sono i ruderi.

 

In Calle Salud,  dietro la chiesa della Caridad del Cobre,  ce n’è uno straordinario.  Anni fa,  dicono,  era la sede di una società cinese.  Chi cammina lungo il marciapiede o percorre la via in macchina non può notarlo,  perché le autorità municipali sono riuscite a occultarlo adeguatamente con enormi cartelloni posti tutt’intorno (…).  Ma venendo da Calle Campanario si può vedere una porticina stretta dalla quale si deve entrare a gattoni.  Di giorno il rudere è pieno di gente in cerca di tubi,  water,  lavandini,  porte,  finestre,  mobili vecchi,  pezzi di ferro,  piastrelle e mattoni che possono essere utili.  Sui muri che stanno ancora in piedi si notano caratteri cinesi e malinconici disegni di laghi solcati da gabbiani,  nonché immagini della Grande Muraglia,  di Buddha,  di Confucio e di improbabili Lao-zi e Zhuang-zi.  A Victorio piacciono i fasci di luce,  elegantemente delineati dalla polvere,  che scendono in tutte le direzioni dagli enormi buchi del tetto,  come in una di quelle ricercate messinscene teatrali,  pretenziose e “poetiche”,  che si possono ancora vedere in qualche teatrucolo dell’Avana.  Nonostante il tempo trascorso dall’epoca in cui la rovina era una società di vecchi cinesi,  si trovano libri (in cinese,  naturalmente),  lanterne di carta rossa e foto sgualcite dell’Augusta Imperatrice e della Città Proibita.  Non c’è più spazio dove sistemarsi.  L’unico posto che ha miracolosamente conservato il soffitto intatto è proprietà del cinese Fung.  Victorio immagina che Fung sia ormai centenario:  tutti i cinesi un po’ vecchi sembrano sempre centenari.  Di notte,  pochi si avventurano fra i detriti;  è abbastanza facile trovare il cinese perché si fa luce con una lanterna a petrolio che è l’unica fonte luminosa in quelle tenebre.  Fung ha l’abitudine di leggere quotidiani vecchissimi,  che non si pubblicano più da tempo,  di un giallo immemorabile,  che poi commenta con chi ha il coraggio di spingersi fino alla sua tana.  Credo che Thiers sia l’uomo di cui la Francia ha bisogno,  osserva nel suo pessimo spagnolo,  con un accento ridicolo,  pieno di elle,  e un tono a un tempo di umiltà e di sufficienza,  un tono strano in quest’anno 2000 della nostra èra,  in cui corre il centoventitreesimo anniversario della morte di Thiers.  Poi sorride,  forse scusandosi,  ed esclama Il mese prossimo Anna Pavlova sarà all’Avana.  A volte decanta le virtù del cannone Berta;  altre deplora quelle stesse virtù.  Lamenta che l’Augusta Imperatrice si sia dimenticata dei suoi sudditi a Cuba,  si duole della morte di Madero,  il buon messicano,  dice e di quella povera donna,  María Guerrero,  attrice eccellente,  sissignore,  attrice eccellente,  anche se io non l’ho mai vista recitare.  Si rallegra per l’apparizione della Madonna di Fatima e insiste Se appare la Madonna,  qualche ragione deve esserci.  Alza il dito,  professorale,  e insiste Da una parte un gruppo di eretici,  quei gran diavoli chiamati bolscevichi,  prende il potere in un paese barbaro;  dall’altra,  per contrastare l’azione del demonio,  in una piccola città del Portogallo,  paese barbaro come tutti i paesi europei,  e allo stesso tempo uno dei più belli e più tristi del mondo,  appare Lei,  tutta-bontà-e-amore.  A quanto sembra,  il cinese Fung non è più né confuciano né taoista,  è diventato cattolico.

La voce del cinese si leva con tristezza nella notte dalle rovine per profetizzare Ci sarà una guerra,  figliolo,  non ne dubiti,  ci sarà una guerra,  e mostra una fotografia dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della sua consorte,  che escono,  con cerimoniale rigoroso,  dal Municipio di Sarajevo.

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ÓSCAR CASTRO ZÚÑIGA

(Rancagua,  Cile 1910 – 1947)

PREGHIERA PERCHÉ TU NON MI DIMENTICHI *

(Oración para que no me olvides)

Mi metterò a vivere in ogni rosa

e in ogni giglio che i tuoi occhi vedono

e in ogni trillo canterò il tuo nome

perché tu non mi dimentichi.

 

Se guardi piangendo le stelle

e ti si riempie l’anima di cose impossibili

è che la mia solitudine viene a baciarti

perché tu non mi dimentichi.

 

Io dipingerò di rosa l’orizzonte

e dipingerò d’azzurro le violacciocche

e indorerò di luna i tuoi capelli

perché tu non mi dimentichi.

 

Se addormentata cammini dolcemente

per un mondo di diafani giardini

pensa al mio cuore che sogna per te

perché tu non mi dimentichi.

 

E se una sera,  su un altare lontano,

colta da un’altra mano,  ti benedicono

mentre ti mettono l’anello d’oro,

la mia anima sarà una lacrima invisibile

sugli occhi di Cristo morente

perché tu non mi dimentichi!

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OCTAVIO PAZ

 

DESTINO DEL POETA

(Suerte del poeta)

Parole?  Sì,  di aria

e nell’aria perdute.

Lascia che mi perda tra parole,

lasciami essere aria su labbra,

un soffio vagabondo senza contorni,

breve aroma che l’aria fa svanire.

Anche la luce in se stessa si perde.

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MARCELA SERRANO

QUEL CHE C’È NEL MIO CUORE

Seconda parte

COLOMBA NERA

SANTIAGO DEL CILE,  MARZO DELL’ANNO 2000

   Durante il volo da San Cristóbal de las Casas a Città del Messico,  al sicuro da qualsiasi aggressione,  avvertii con mia grande sorpresa la nostalgia per la mia terra,  quella terra disincantata,  voluta,  rabbiosa,  tenace,  maltrattata e spaventata,  sofferente e compiaciuta,  la mia.  Era la mia terra dopotutto,  non l’ho scelta io,  non ne ho un’altra.  (…) io mi sono domandata quando,  noi cileni,  qual è stato il momento in cui abbiamo perduto l’anima.  C’è qualcosa di voluttuoso nel rimpianto.  Pensai a Pinochet,  ai suoi occhi come due biglie rubate alle lagune della Patagonia,  azzurre e gelide come un ghiacciaio antico,  millenario.  E nel pensarci,  ebbi l’orribile certezza che mentre lui manteneva il potere sul paese,  noi,  che anelavamo alla democrazia,  eravamo migliori.  Ciononostante il mio desiderio andava verso quel pezzo di mondo,  uno degli enormi accidenti,  i paesi di questo continente.  Uno degli insegnamenti della mia breve prigionia è stato di apprezzare quello che prima sembrava ovvio,  evidente e scontato.  Perdendo la libertà,  ho capito che l’avrei recuperata soltanto se ritornavo al luogo in cui sono nata.

In sanscrito la parola vedova significa vuota.  Una vedova del Cile,  sono io.

 

* (Traduzione di Ezio Beccaria)

** (Questa Poesia è stata scelta,  tradotta ed inviata dall’Autore,  Rodolfo Alonso,  espressamente per me e per questa Lettura.  Anche per questa gentilezza Gli sono riconoscente)

 

25 Settembre 2016