HERMAN, LUIS E LA BALENA

LETTURE DA MELVILLE E SEPÚLVEDA

(Scelte da Ezio Beccaria)

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¿Conoces al capitán Achab,  Luis?

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   HERMAN MELVILLE

(New York,  U.S.A.  1 Agosto 1819 – New York  28 Settembre 1891)

MOBY DICK

                                                         (Moby Dick or the Whale  1851)

(Traduzione di Cesare Pavese)

CAPITOLO I

Miraggi

Chiamatemi Ismaele.  Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra,  pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo.  È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione.  Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo,  ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso,  ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente,  allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.  Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola.  Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada:  io cheto cheto mi metto in mare.  Non c’è nulla di sorprendente in questo.  Se soltanto lo sapessero,  quasi tutti gli uomini nutrono,  una volta o l’altra,  ciascuno nella sua misura,  su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.   (…).

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LUIS SEPÚLVEDA

 (Ovalle,  Cile 4 ottobre 1949 – Oviedo,  Spagna 16 aprile 2020)

STORIA DI UNA BALENA BIANCA RACCONTATA DA LEI STESSA

(Historia de una ballena blanca contada por ella misma  2018)

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La memoria della balena parla dell’uomo

L’uomo ha sempre provato timore per le mie dimensioni e inquietudine perché non poteva dominarmi.  “A cosa servirà un animale così grande?”  si è chiesto fin dal principio dei tempi e io l’ho osservato da quando ha messo piede per la prima volta sulla riva del mare e ha scoperto che il suo corpo non era adatto a conoscere gli abissi,  ma che poteva usare qualcosa che galleggiasse per sfidare l’impeto delle onde. Così ho visto l’uomo muoversi sulla superficie del mare sopra quattro fragili pezzi di legno;  ci siamo guardati tenendoci a prudente distanza,  l’uomo con diffidenza,  io con curiosità e stupore per la sua determinazione.  Ho ammirato il suo coraggio e l’insistenza con cui affrontava i flutti navigando su imbarcazioni che non resistevano agli urti contro gli scogli,  né al tocco affilato dei coralli quando si addentrava in acque di scarso pescaggio. Imparerà,  mi dicevo vedendolo ostinato,  tenace,  anche se navigava senza mai perdere d’occhio la costa,  intimidito dalla sfida dell’orizzonte. E l’uomo ha ben presto imparato a muoversi sul mare.  Così come io,  la balena del colore della luna,  ho appreso il segreto delle maree e delle correnti da un’altra balena che a sua volta l’aveva appreso da un’altra ancora,  anche l’uomo ha condiviso le nuove conoscenze e ha moltiplicato la sua presenza sul mare.  Ha costruito imbarcazioni sempre più grandi,  ha perfezionato l’arte di catturare il vento con superfici leggere che chiama vele e non ha tardato a scoprire il cielo e le stelle,  che indicano la rotta.  Allora si è arrischiato a navigare nel buio e ha smesso di temere l’orizzonte. A volte ci incontravamo nella vasta solitudine oceanica e quando io,  la balena del colore della luna,  salivo in superficie a respirare,  vedevo gli uomini affacciati al parapetto delle loro navi e non coglievo minaccia ma sorpresa nei marinai che mi indicavano esclamando:  “Ecco la balena bianca!” Non mi avvicinavo mai troppo alle imbarcazioni.  Rispettavo il coraggio degli uomini e consideravo anche loro abitanti del mare. Così sono passate le ere,  il tempo circolare segnato dal freddo e dal caldo portati dai venti e dalle correnti.  Gli uomini impegnati a seguire il loro incerto destino e le balene a solcare la loro dimora salmastra dal’inizio alla fine della vita.

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   HERMAN MELVILLE

MOBY DICK

 

CAPITOLO VIII

Il pulpito

Non era molto che stavo seduto quando un uomo di una certa venerabile robustezza entrò,  e  (…) una rapida occhiata riguardosa di tutta la congregazione attestò a sufficienza che questo bel vecchio era il cappellano.  Sì,  era il famoso padre Mapple,  così chiamato dai balenieri,  dei quali era un grande favorito.  In giovinezza,  egli era stato marinaio e ramponiere,  ma ormai da molti anni dedicava la sua vita al ministerio.  Al tempo in cui scrivo,  padre Mapple era nell’inverno gagliardo di una sana vecchiaia,  quella specie di vecchiaia che sembra impregnata di una seconda giovinezza (…).  Nessuno che ne avesse già sentita la storia poteva guardare per la prima volta padre Mapple senza un grandissimo interesse,  perché in lui,  data l’avventurosa vita marinaresca che aveva condotta,  il carattere sacerdotale s’arricchiva di certe peculiarità.  Quando entrò,  osservai che non portava parapioggia e certamente non era arrivato in carrozza,  poiché il cappello di tela incatramata gli grondava di nevischio e il suo grande gabbano pareva quasi tirarlo a terra tant’era il peso dell’acqua che aveva assorbito.  Comunque,  cappello,  giubba e soprascarpe vennero presto spogliati e appesi in un cantuccio adiacente;  poi,  decorosamente vestito,  egli s’avvicinò tutto pacato al pulpito. Come la maggior parte dei pulpiti all’antica,  questo era molto alto,  e siccome una scala regolare per una simile altezza avrebbe (…) diminuita notevolmente la già ristretta superficie della cappella,  l’architetto,  pare,  s’era conformato a un suggerimento di padre Mapple e aveva finito il pulpito senza scale,  sostituendovene una (…) perpendicolare,  come quelle che usano per salire a bordo d’una nave in alto mare.  (…).  Soffermandosi un istante al piede della scaletta (…),  padre Mapple levò gli occhi e poi,  con una destrezza veramente marinaresca ma pur sempre reverente,  montò su,  a mano a mano,  gli scalini,  come se salisse alla coffa di maestro della sua nave. I correnti di questa scaletta,  com’è generalmente nelle scale penzolanti,  erano di cavo rivestito;  soltanto gli scalini erano di legno,  cosicché ad ogni passo s’incontrava una snodatura.  Nella mia prima occhiata al pulpito non m’era sfuggito che,  sebbene convenienti per una nave,  queste snodature parevano nel caso attuale affatto inutili.  Perché non mi aspettavo di vedere padre Mapple,  dopo raggiunta l’altezza,  voltarsi lentamente e sporgendosi dal pulpito tirare su deliberatamente la scaletta a grado a grado,  finché essa non fu tutta deposta all’interno (…). Meditai un po‘ le ragioni del gesto,  senza comprenderle.  Padre Mapple godeva una così larga reputazione di sincerità e santità,  che io non potevo sospettarlo di corteggiare la fama con questi trucchi teatrali.  No,  pensai,  ci dev’essere qualche seria ragione;  questo,  anzi,  deve simboleggiare qualcosa di nascosto.  Può dunque darsi che con questo gesto di isolamento materiale egli significhi il suo allontanamento spirituale e temporaneo da ogni esterno legame e rapporto mondano?  (…). Ma la scaletta a fuoribanda non era il solo tratto bizzarro del luogo,  originato dalle antiche scorrerie marine del cappellano.  Tra i cenotafi in marmo dalle due parti del pulpito,  il muro,  che a questo faceva da sfondo,  era adorno di una grande pittura raffigurante una nave temeraria che combatteva contro un terribile fortunale a sopravvento di una costa di rupi nere e di frangenti bianchissimi.  Ma in alto,  sopra la nuvolaglia fuggente e i cumuli foschi ammonticchiati,  fluttuava un volto d’angelo (…).  “Ah,  nobile nave,”  pareva dire quell’angelo “combatti,  combatti,  o nobile nave,  e mantieni con coraggio la barra;  perché,  guarda!  ecco il sole che rompe,  le nuvole che fuggono:  il più limpido azzurro è vicino”. E nemmeno il pulpito mancava di un segno di quello stesso gusto marinaro che aveva foggiato la scala e il dipinto.  La sua fronte a pannelli era fatta a somiglianza di una grossa prora di nave e la Sacra Bibbia poggiava su un pezzo sporgente a voluta,  come la serpe a testa di violino di una prora. Che cosa poteva esserci di più significativo?  poiché il pulpito è sempre la parte più avanzata della terra,  tutto il resto vien dietro,  il pulpito conduce il mondo.  Poiché è di là che il fortunale del pronto sdegno di Dio è avvistato la prima volta,  ed è la prora che regge al primo assalto.  È di là che il Dio dei venti favorevoli o contrari è invocato la prima volta per i venti felici.  Sì,  il mondo è una traversata senza viaggio di ritorno,  e il pulpito è la prora.

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LUIS SEPÚLVEDA

STORIA DI UNA BALENA BIANCA RACCONTATA DA LEI STESSA

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La balena parla di ciò che ha imparato dagli uomini

Molto lontano dalla costa,  in mare aperto,  vidi una grande nave degli uomini solcare le acque.  Era una bella imbarcazione con tre alberi che puntavano al cielo e reggevano vele gonfie di vento.  Navigava con grazia,  affrontava bene le onde e l’equipaggio sul ponte si dava da fare a tenere la rotta. Mi immersi,  avanzai e riemersi fino a trovarmi vicino alla nave,  sottovento,  per accompagnarli nella traversata.  Mi videro,  sentii le loro grida di stupore,  una balena bianca!,  ma un fischio stridente li allontanò dal parapetto e tornarono al lavoro.  (…) Malgrado l’indifferenza dei marinai,  decisi di accompagnare la nave ancora per un tratto e allora,  riemergendo (…),  vidi un’altra imbarcazione che seguiva la stessa rotta.  (…). Sulle murate delle due imbarcazioni apparvero bocche nere che cominciarono a sputare fuoco (…).  Subito la prima nave s’incendiò lanciando attorno schegge infuocate che cadevano in mare,  gli alberi che reggevano le vele cedettero e crollarono fra urla di odio,  paura e disperazione degli uomini che si gettavano fuori bordo. La prima nave,  semidistrutta,  non tardò ad affondare e la seconda si allontanò fra le grida esaltate dei marinai che festeggiavano la vittoria.  Molti degli sconfitti erano in acqua,  alcuni cercavano di tenersi a galla,  ma cedettero ben presto alla fatica e divennero macchie immote in balia delle onde. Mi sembrò molto strano il comportamento degli uomini in questo loro incontro in mare.  La minuscola sardina non attacca un’altra sardina,  la lenta tartaruga non attacca un’altra tartaruga,  il vorace pescecane non attacca un altro pescecane.  A quanto pare gli uomini sono l’unica specie che attacca i propri simili e non mi piacque questa cosa che imparai da loro.  

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HERMAN MELVILLE

MOBY DICK

 

CAPITOLO XXVIII

Achab

   (…).  Ora,  essendo Natale quando la nave sbucò fuori dal porto,  per un po‘ subimmo una pungente temperatura polare,  sebbene continuassimo a fuggire verso il sud e ci lasciassimo a poco a poco alle spalle,  per ogni grado e minuto di latitudine che avanzavamo,  quell’inverno spietato e tutta la sua intollerabile temperie.  Era una di quelle mattinate di transizione,  meno minacciose ma sempre abbastanza grigie e tetre,  e sotto un vento favorevole la nave correva nel mare con un piglio vendicativo di scattante e malinconica rapidità,  quand’io salendo in coperta alla chiamata della guardia del mattino,  diressi appena gli occhi al coronamento che brividi di presagio mi percorsero.  La realtà superò le apprensioni:  il capitano Achab era sul cassero. Non pareva avesse indosso segni di una comune malattia fisica,  né di convalescenza alcuna.  Aveva l’aspetto di un uomo staccato dal rogo quando il fuoco ha devastato,  trascorrendole,  tutte le membra,  ma senza consumarle o rubar loro una sola particola della compatta e vecchia robustezza.  Tutta la sua figura alta e grande sembrava fatta di solido bronzo e foggiata in uno stampo inalterabile,  come il Perseo fuso del Cellini.  Un segno sottile come una bacchetta,  d’un biancore livido,  si apriva una strada di tra i capelli grigi e continuava dritto da un lato della faccia e del collo abbruciacchiati dall’abbronzatura,  finché scompariva negli abiti.  La cicatrice perpendicolare somigliava a quella che si produce talvolta sul tronco dritto di un grande albero,  quando la folgore vi si precipita squarciante e,  senza divellere un sol ramo,  da cima a fondo spella e scava la corteccia prima di perdersi nel suolo,  lasciando la pianta ancor verde di vita,  ma segnata.  Se questo segno era nato con lui o se era invece la cicatrice di una ferita disperata,  nessuno poteva dire con certezza.  Per un qualche tacito accordo,  poca o nessuna allusione venne fatta ad esso durante tutto il viaggio,  specialmente da parte degli ufficiali.  Ma una volta l’anziano di Tashtego,  un vecchio indiano Capo Allegro,  dell’equipaggio,  asserì superstiziosamente che Achab era stato segnato a quel modo non prima dei quarant’anni e che ciò era allora accaduto non nella furia di una rissa mortale,  ma in una lotta con gli elementi sul mare.  Pure questo fiero accenno parve implicitamente smentito da ciò che volle insinuare un grigio nativo di Man,  vecchio tipo sepolcrale,  che non avendo mai salpato altre volte da Nantucket non aveva mai prima d’ora posato l’occhio sul fosco Achab.   Nondimeno le antiche tradizioni dell’oceano,  le sue immemoriali credulità,  investivano popolarmente questo vecchio di Man di soprannaturali poteri di discernimento.  Cosicché nessun marinaio bianco pensò seriamente a contraddirlo quand’egli affermò che,  se mai il capitano Achab avesse dovuto venire con calma vestito per la tomba – ciò che,  forse,  bisbigliò,  non sarebbe mai accaduto – allora,  chiunque avesse atteso a quest’estremo ufficio funebre gli avrebbe trovato addosso,  dalla testa al calcagno,  un segno della nascita. Tanto fortemente m’impressionò l’insieme del truce aspetto di Achab e quel livido marchio che lo segnava,  che per i primi istanti m’accorsi appena come non poco del suo strapotente effetto truce fosse dovuto alla barbarica gamba bianca sulla quale in parte poggiava.  Mi era stato detto in precedenza che questa gamba d’avorio gli era stata intagliata in mare nell’osso levigato della mascella di un capodoglio.  “Sì,  l’hanno disalberato al largo del Giappone,”  disse una volta il vecchio indiano Capo Allegro “ma come la sua nave disalberata,  lui ha imbarcato un altro albero senza tornare a casa a prenderlo.  Ne ha un’intera faretra”. Io rimasi colpito dalla posizione singolare che teneva.  Da ciascuna parte del cassero e vicinissimo alle sàrtie di mezzana c’era un buco di trivello,  profondo circa la metà d’un pollice o giù di lì,  nella tavola di coperta.  La gamba d’osso assicurata in quel buco,  un braccio levato e afferrato a una sàrtia,  il capitano Achab stava eretto,  guardando dritto al largo,  oltre la prora della nave che continuamente beccava.  C’era tutto un infinito di fortezza sicura,  di volontà determinata e indomabile nella dedizione fissa e intrepida e pronta di quello sguardo.  Non disse una parola,  e nemmeno i suoi ufficiali dissero nulla a lui,  sebbene tradissero chiaramente,  nei loro menomi gesti e nelle espressioni,  la disagiata,  se non penosa,  coscienza di trovarsi sotto un occhio corrucciato di padrone.  E non soltanto questo,  ma il cupo,  folgorato Achab stava loro innanzi con una crocifissione sul volto,  in tutta l’indicibile e regale e opprimente dignità di un gagliardo dolore (…).

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LUIS SEPÚLVEDA

STORIA DI UNA BALENA BIANCA RACCONTATA DA LEI STESSA

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La balena parla di ciò che muove gli uomini

   (…).  L’occhio dell’anziano capodoglio mi raccontò un viaggio in compagnia di una balenottera azzurra,  la prima ad avvisarlo del pericolo dei balenieri.  L’anziano capodoglio voleva saperne di più e la balenottera azzurra lo aveva esortato a spostarsi nelle acque più calde per avvicinarsi alla dimora degli uomini. Avevano nuotato vicinissimo alla superficie.  Uscivano a respirare e tornavano a immergersi,  sempre così,  finché non erano arrivati davanti a una costa che all’anziano capodoglio era sembrata strana ma bella,  perché evidentemente le stelle avevano deciso di offrire agli uomini la loro scintillante compagnia.  Allora la balenottera azzurra gli aveva detto che non erano le stelle a brillare,  ma delle cose che gli uomini chiamavano lampade e che dentro le lampade bruciava una parte di noi balene. Non ci davano la caccia per cibarsi delle nostre carni,  ma per l’olio dei nostri intestini,  che ardeva illuminando le loro case.  Non ci ammazzavano per paura della nostra specie;  lo facevano perché gli uomini temono il buio e noi balene possediamo la luce che li libera dalle tenebre.  (…).

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HERMAN MELVILLE

MOBY DICK

 

CAPITOLO XXXVI

Il cassero

   (…).  Le ore passarono:  Achab si rinchiuse nella cabina,  e subito dopo passeggiò ancora in coperta,  con lo stesso profondo fanatismo d’intento nell’aspetto. S’avvicinava la fine del giorno.  Improvvisamente egli s’arrestò alla murata e,  cacciando la gamba d’avorio nella buca di trivello che c’era e afferrando con una mano una sàrtia,  comandò a Starbuck di mandar tutti a poppa. “Signore!”  disse il secondo,  stupefatto a quell’ordine che raramente o mai si dà a bordo,  tranne in casi straordinari. “Manda tutti a poppa”  ripeté Achab.  “Vedette oè!  Abbasso!” Quando tutti gli uomini furono riuniti e lo stettero a guardare con facce incuriosite e non del tutto sgombre da apprensioni,  poiché non aveva l’aspetto dissimile dall’orizzonte quando si leva un fortunale,  Achab,  gettato un rapido sguardo oltre le murate e poi fissato l’equipaggio,  si scosse dalla sua immobilità e,  come non avesse accanto neanche un’anima,  riprese le sue volte pesanti in coperta.  Con la testa piegata e il cappello a metà schiacciato continuò la sua marcia,  incurante del mormorio di stupore tra gli uomini (…).  Ma la cosa non durò molto.  Con veemenza,  arrestandosi,  egli esclamò: “Che cosa fate,  marinai,  quando vedete una balena?” “La segnaliamo!”  ribatté impulsiva una folla di voci,  tutte insieme. “Bene!”  esclamò Achab con un tono di feroce approvazione,  osservando la sincera animazione in cui la sua domanda inaspettata li aveva gettati così magneticamente. “E che cosa fate dopo,  marinai?” “Ammainiamo e la inseguiamo!” “E a che canto remate,  marinai?” “Balena morta o lancia sfondata!” Sempre più stranamente e fieramente soddisfatto si faceva il viso del vecchio a ogni grido,  e intanto gli uomini si guardavano tra loro incuriositi,  quasi si stupissero come mai essi stessi erano tanto eccitati a quelle domande in apparenza così oziose. Ma tornarono tutti attentissimi quando Achab,  mezzo volgendosi ora sul suo perno,  con una mano stesa in alto a una sàrtia che stringeva strettamente,  quasi convulsamente,  così parlò all’equipaggio: “Tutti voi di vedetta mi avete prima d’ora sentito dar ordini per una balena bianca.  Guardate!  vedete quest’oncia d’oro spagnola?”  e levò al sole una grossa moneta splendente.  “È una pezza da sedici dollari,  marinai.  La vedete?  Signor Starbuck,  dammi quella mazza.” Mentre l’ufficiale prendeva il martello,  Achab senza dir nulla si sfregava con cautela la pezza d’oro sulle falde della giacca,  come per aumentarne lo splendore,  e senza usar parole canterellava intanto a bassa voce tra sé,  emettendo un suono così stranamente soffocato e inarticolato che pareva il ronzio macchinale delle ruote della vitalità che aveva dentro. Ricevendo la mazza da Starbuck,  s’avanzò verso l’albero maestro con lo strumento alzato in una mano,  mettendo con l’altra l’oro bene in vista.  A gran voce esclamò:  “Chiunque di voi mi segnali una balena dalla testa bianca,  dalla fronte rugosa e dalla mandibola storta,  chiunque di voi mi segnali quella balena bianca che ha tre buchi nella pinna dritta della coda,  state attenti!  chiunque mi segnali  proprio questa balena,  riceverà quest’oncia d’oro,  marinai!” “Urrà!  Urrà!”  gridarono gli uomini,  mentre agitando i cappellacci salutavano l’atto di inchiodare all’albero la moneta. “È una balena bianca,  vi dico;”  riprese Achab,  gettando via la mazza  “cavatevi gli occhi per cercarla,  ragazzi:  guardate bene se vedete acqua bianca:  se vedete anche solo una bolla,  segnalate.” Durante tutto ciò,  Tashtego,  Deggu e Quiqueg avevano guardato con interesse e sorpresa anche più intensa degli altri,  e alla menzione della fronte rugosa e della mandibola storta avevano trasalito come se ciascuno fosse stato toccato per suo conto da un qualche speciale ricordo. “Capitano Achab,”  disse Tashtego  “quella balena bianca dev’essere la stessa che certi chiamano Moby Dick.” “Moby Dick?”  Gridò Achab.  “Conosci dunque la Balena Bianca tu,  Tash?” “Dibatte la coda in un modo un po‘ curioso prima di tuffarsi,  signore?”  chiese pacatamente il Capo Allegro. “E ha uno spruzzo curioso,”  disse Deggu  “molto grosso anche per uno spermaceti,  e rapidissimo,  capitano?” “E lui ha uno,  due,  tre,  oh!  molti ferri in pelle anche,  capitano,”  esclamò Quiqueg a scatti  “tutti contortati,  stortati come il…  il…”  e balbettava cercando una parola e torceva la mano tutt’in giro come a stappare una bottiglia  “come il…  il…” “Cavatappi!”  gridò Achab.  “Sì,  Quiqueg,  i ramponi gli stanno nel fianco tutti storti e divelti,  sì,  Deggu,  il suo spruzzo è grosso come un fascio di grano e bianco come un mucchio di lana di Nantucket dopo la grande tosatura annuale;  sì,  Tashtego,  e dibatte la coda come un fiocco sbrindellato nella raffica.  La morte e i diavoli!  è Moby Dick che avete visto,  marinai,  Moby Dick,  Moby Dick!” “Capitano Achab,”  disse Starbuck che insieme a Stubb e Flask aveva finora guardato con crescente sorpresa il superiore,  ma che alla fine parve colpito da un pensiero che in qualche modo spiegava tutta la meraviglia  “capitano Achab,  ho sentito parlare di Moby Dick;  ma non è stato Moby Dick a strapparti la gamba?” “Chi ti ha detto questo?”  gridò Achab;  poi fermandosi:  “Sì,  Starbuck,  sì,  miei coraggiosi quanti siete,  è stato Moby Dick che mi ha disalberato,  Moby Dick che mi ha ridotto a questo tronco su cui mi reggo ora.  Sì,  sì!”  egli urlò con un terribile e altissimo singhiozzo da belva,  simile a quello dell’alce colpita nel cuore.  “Sì,  sì!  è stata quella maledetta Balena Bianca a rasarmi,  a far di me per sempre un buono a nulla incavigliato!”  Poi,  agitando le due braccia con smisurate imprecazioni urlò a distesa:  “Sì,  sì!  e le darò la caccia oltre il Capo di Buona Speranza,  al di là di Capo Horn,  al di là del grande Maelstrom di Norvegia,  oltre le fiamme della perdizione,  prima di abbandonarla.  Ed è per questo che vi siete imbarcati,  marinai!  Per cacciare quella Balena Bianca in tutto il mondo,  in ogni parte della terra,  finché non sfiati sangue nero e si rivolti con le pinne all’aria.  Che cosa rispondete,  marinai (…)?  A vedervi sembrate coraggiosi.” “Sì,  sì”  gridarono i ramponieri e i marinai,  avvicinandosi correndo al vecchio sconvolto.  “Occhio aguzzato alla Balena Bianca,  lancia aguzzata contro Moby Dick!” (…).

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LUIS SEPÚLVEDA

STORIA DI UNA BALENA BIANCA RACCONTATA DA LEI STESSA

 

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La balena parla del primo incontro con i balenieri

   (…)  “Balene a prua!”  gridò l’uomo e la nave issò altre vele per catturare più vento e si lanciò su di noi. Io e le quattro balene vecchie eravamo a metà del braccio di mare fra la costa e l’isola.  Con un occhio le guardavo avanzare lente e ignare del pericolo.  Con l’altro occhio vedevo avvicinarsi i balenieri. Non li avevo mai affrontati e non sapevo bene come fare.  All’inizio pensai di investirli,  ma la distanza che ci separava non mi consentiva di prendere abbastanza slancio,  di guadagnare velocità e forza e allora mi ricordai di una cosa che avevo sentito dire dai Lafkenche.  La Gente del Mare sosteneva che i forestieri erano talmente avidi da volere sempre di più e come dimensioni io,  il capodoglio del colore della luna,  ero molto di più delle quattro balene vecchie. Mi immersi,  avanzai verso la nave e,  proprio mentre emergevo dall’acqua con un salto,  un fulmine rischiarò il cielo e vidi degli uomini sul ponte che si affacciarono immediatamente dal parapetto. “Balena a dritta,  è enorme!”  avvisò uno. Sbattei tre volte la pinna della coda sull’acqua per sfidarli e riuscii a fare in modo che la nave cambiasse rotta e puntasse la prua nella mia direzione. Li lasciai avvicinare prima di immergermi e poi ricomparire con un altro salto,  tutto il corpo fuori dall’acqua perché mi vedessero bene nel buio di quella notte tempestosa.  Così,  comparendo e scomparendo,  restando a volte immobile in superficie,  spinsi la nave a uscire dal canale e a seguirmi in mare aperto. Quando spuntarono le prime luci dell’alba,  (…) gli uomini mi inseguivano ancora.  L’imbarcazione era grande e quindi lenta nei movimenti,  non poteva competere con la mia abilità nel cambiare direzione sott’acqua per poi sorprenderli affiorando ora su un fianco ora sull’altro della nave.  Dopo essermi immerso ed essere riemerso parecchie volte a distanza ravvicinata,  decisi che dovevo scoprire come facevano a ucciderci,  dovevo conoscere le loro manovre,  i loro punti forti e i punti deboli.  Così,  dopo essere riemerso per l’ennesima volta,  rimasi immobile in superficie. Da una fiancata della nave,  con l’aiuto di corde,  calarono in acqua un’imbarcazione piccola,  su cui salirono cinque marinai.  Spingendosi con quattro bastoni che finivano in una specie di pinna,  gli uomini vennero verso di me.  Uno di loro stava in piedi e brandiva sopra la testa il palo che avevo visto piantato nel dórso della balena Calderón.  L’arpione. Capii come attaccavano.  Quelle piccole imbarcazioni permettevano ai balenieri di spostarsi in fretta e di cambiare facilmente rotta. Per saperne di più cominciai a girare in cerchio intorno alla barca piccola.  Prendevo aria e mi immergevo senza perderli di vista.  Quando arrivavo in profondità,  mi giravo e riemergevo dove non se lo aspettavano.  Manovravano infuriati e l’uomo che impugnava l’arpione reclamava più velocità. Ormai ne sapevo a sufficienza dei balenieri.  Stuzzicando la loro avidità avevo fatto in modo che si allontanassero dalle quattro balene vecchie e mirassero a una preda più grossa,  a me,  il capodoglio del colore della luna;  adesso mi restava da conoscere soltanto la loro paura. Mi riempii i polmoni,  scesi nel buio degli abissi,  guadagnai velocità,  riemersi quasi accanto alla barca piccola saltando con tutto il corpo fuori dall’acqua e quando ricaddi creai un’onda,  un fiume di spuma che li rovesciò.  Li vidi nuotare disperati e aggrapparsi alla barca capovolta.  Allora,  mentre mi allontanavo,  sentii il nome che mi avevano dato i balenieri. “Torneremo a prenderti,  Mocha Dick!”  gridò l’uomo con l’arpione. E la sua voce piena di odio suonò come un presagio di quello che sarebbe accaduto.

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HERMAN MELVILLE

MOBY DICK

 

CAPITOLO CIX

Achab e Starbuck nella cabina

Secondo l’usanza,  il mattino seguente si stava pompando la nave,  quando a un tratto non poco olio venne su con l’acqua;  nelle botti sottostanti doveva essersi aperta qualche brutta falla.  Erano tutti molto preoccupati,  e Starbuck scese nella cabina a riferire su questa faccenda disgraziata. Ora,  dal sud-ovest il Pequod s’avvicinava a Formosa e alle isole Bashi tra cui s’apre uno dei passaggi tropicali dai Mari della Cina al Pacifico.  E così Starbuck trovò Achab con una carta generale degli arcipelaghi orientali innanzi e un’altra,  separata,  che rappresentava le lunghe coste orientali delle isole giapponesi Nippon,  Matsmai e Sikoke.  Con la nuova gamba d’avorio,  bianca come la neve,  appoggiata contro la gamba a vite del tavolo e in mano un lungo coltello a falcetto,  il vecchio prodigioso,  volgendo la schiena alla porta,  corrugava la fronte e ritracciava i suoi percorsi antichi. “Chi è là”  udendo il passo all’uscio,  ma senza voltarsi.  “In coperta!  Via!” “Il capitano si sbaglia,  son io.  Le botti della stiva perdono,  signore.  Bisogna issare i Burton e disistivare.” “Issare i Burton e disistivare?  Adesso che ci avviciniamo al Giappone:  restare qui in panna una settimana,  per rafforzare un fascio di vecchi cerchi di botte?” “O far così,  signore,  o sprecare in un giorno più olio che non si possa rifarne in un anno.  Ciò che abbiamo fatto ventimila miglia per venire a prendere,  vale la pena di averne cura,  signore.” “Giusto,  giusto,  se lo prendiamo.” “Parlavo dell’olio nella stiva,  signore.” “E io non parlavo né pensavo affatto all’olio.  Via!  Che apra falle!  Sono anch’io tutto falle.  Sì!  Falle su falle!  Non soltanto pieno di botti fallose,  ma queste botti fallose sono in una nave fallosa;  e questa è una condizione ben peggiore di quella del Pequod,  marinaio.  Pure io non mi fermo a turare la falla,  poiché chi può scoprirla in questo scafo dal carico tanto pesante o sperare di turarla,  se anche la trovasse,  nella burrasca muggente della vita?  Starbuck!  Non voglio che si issino i Burton.” “Che cosa diranno i padroni,  signore?” “Che i padroni vengano sulla spiaggia di Nantucket a urlare più forte dei Tifoni.  Che cosa importa ad Achab?  I padroni,  i padroni?  Tu mi stai sempre a cianciare,  Starbuck,  di quegli avari padroni come se i padroni fossero la mia coscienza.  Ma vedi,  il solo vero padrone di qualcosa è il suo comandante e,  bada,  la mia coscienza è nella chiglia di questa nave.  In coperta!” “Capitano Achab”  disse l’ufficiale,  tutto rosso,  avanzandosi nella cabina,  con audacia tanto stranamente rispettosa e cauta che pareva non soltanto cercar di evitare in ogni modo qualsiasi manifestazione esteriore,  ma nell’intimo anche mezzo priva di fiducia in se stessa;  “Un uomo migliore di me potrebbe perdonarti ciò di cui si risentirebbe subito un uomo più giovane;  sì,  e più felice,  capitano Achab.” “L’inferno!  Osi tu anche soltanto pensare di criticarmi?  In coperta!” “No,  signore,  non ancora,  ve ne prego.  Io oso,  signore…  non risentirmi.  Non sarà possibile comprenderci meglio d’ora innanzi,  capitano Achab?” Achab afferrò dalla rastrelliera (che fa parte del mobilio di cabina sulla maggior parte delle navi del Mare del Sud)  un moschetto carico e puntandolo contro Starbuck gridò:  “C’è un Dio che è signore della terra,  e un capitano che è signore del Pequod.  In coperta!” Per un attimo,  dagli occhi fiammeggianti e dalle guance accese dell’ufficiale,  avreste creduto che questi avesse davvero ricevuto la vampa della canna abbassata.  Ma,  dominando l’emozione,  si erse quasi calmo e lasciando la cabina s’arrestò un istante e disse:  “Tu mi hai oltraggiato,  signore,  non insultato;  ma per questo non ti chiedo di guardarti da Starbuck;  rideresti soltanto.  Ma che Achab si guardi da Achab;  guardati da te stesso,  vecchio.”  (…).

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LUIS SEPÚLVEDA

STORIA DI UNA BALENA BIANCA RACCONTATA DA LEI STESSA

  Nell’agosto del 1819 la baleniera Essex salpò da Nantucket e fece rotta verso Sud.  La navigazione fino allo Stretto di Magellano,  il passaggio dall’Oceano Atlantico al Pacifico furono difficili e la caccia alla balena poco fortunata,  ma i marinai sapevano che nelle acque australi della giovane nazione cilena si concentravano molte balene,  soprattutto capodogli e balenottere azzurre. All’alba del 20 novembre 1820 la Essex navigava a vele spiegate davanti alle coste apparentemente deserte di una regione coperta di boschi in cui si formavano nebbie repentine.  Avevano catturato diverse balene,  ma non abbastanza da riempire i serbatoi per la raccolta dell’ambra grigia,  del grasso e dell’olio ricavati dai cetacei.  All’improvviso,  dalla coffa dell’albero maestro,  la vedetta di turno gridò:  “Una balena!  È enorme!”    Allora i ramponieri della Essex,  che stavano issando a bordo una balena femmina appena arpionata, videro increduli un gigantesco capodoglio albino,  quasi bianco,  lungo oltre venti metri, che si scagliava contro la murata della nave. La violenza del capodoglio bianco era impressionante e dopo un paio di assalti la Essex cominciò ad affondare nelle acque del Pacifico,  di fronte all’Isola Mocha.  I membri dell’equipaggio lanciarono in acqua tutte le scialuppe che avevano,  ma la furia del capodoglio bianco non concesse trégua e le distrusse una dopo l’altra,  inseguendo le imbarcazioni e riducendole in mille pezzi a forza di colpi.  Era un atto di vendetta che i marinai,  disperati,  non riuscivano a capire. Non si seppe mai quanti balenieri fossero morti nelle fredde acque del Pacifico,  di fronte all’Isola Mocha,  ma i pochi sopravvissuti che furono tratti in salvo quasi sei mesi dopo da un’altra baleniera,  una volta rientrati a Nantucket raccontarono atterriti l’incontro con un mostro marino che,  in base alla loro descrizione,  venne riconosciuto da altri balenieri.  Lo chiamavano Mocha Dick. La testimonianza dei superstiti della Essex,  confermata da altri balenieri che avevano visto il grande cetaceo,  permise qualche tempo dopo a un doganiere di nome Herman Melville di scrivere Moby Dick.  

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HERMAN MELVILLE

MOBY DICK

 

CAPITOLO CXXXV

  (…).  “A te vengo,  balena che tutto distruggi ma non vinci;  fino all’ultimo lotto con te;  dal cuore dell’inferno ti trafiggo;  in nome dell’odio,  vomito a te l’ultimo mio respiro.  (…)” Il rampone venne scagliato;  la balena colpita filò innanzi,  e con velocità da far faville la lenza scorse nella  scanalatura:  s’imbrogliò.  Achab si piegò a disimpegnarla,  la disimpegnò;  ma la volta volante lo prese intorno al collo e (…) venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio si accorgesse che non c’era più. (…).  Per un momento,  l’equipaggio incantato della lancia stette immobile,  poi si volse.  “La nave?  Gran Dio,  dov’è la nave?”  Presto (…) ne videro il fantasma inclinato che svaniva,  come nei vapori della Fata Morgana (…).  E allora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria e tutto l’equipaggio e ogni remo fluttuante e ogni palo e,  facendo girare le cose vive e quelle inanimate,  tutto intorno in un vortice,  trascinarono anche il più piccolo avanzo del Pequod fuori vista.

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LUIS SEPÚLVEDA

STORIA DI UNA BALENA BIANCA RACCONTATA DA LEI STESSA

  Né i sopravvissuti della Essex né gli altri balenieri sapevano che quel grande capodoglio albino,  quasi bianco,  era il guardiano delle balene che abitavano nelle acque intorno all’Isola Mocha,  un luogo sacro per i Lafkenche,  la Gente del Mare.  Non sapevano nemmeno che le balene e i delfini erano creature venerate dai Lafkenche;  quando un Lafkenche moriva,  il suo corpo doveva essere disteso sulla riva del mare,  con il viso rivolto verso il cielo e cinque pietre turchesi in ogni mano,  il compenso per le balene che avrebbero traghettato il suo spirito sull’Isola Mocha. Secondo le credenze dei Lafkenche,  di etnia Mapuche,  tutto il male,  tutto ciò che causa dolore e sofferenza,  giunge sempre da Oriente;  ecco come mai le anime dei morti devono radunarsi sull’Isola Mocha,  grazie alle balene protette dal grande capodoglio bianco,  l’animale sacro,  così che una volta morto l’ultimo Lafkenche e trasportato il suo spirito sull’isola,  tutte le anime possano salire sul dorso del capodoglio bianco e intraprendere un viaggio verso Occidente,  oltre l’orizzonte dove si immerge il sole,  verso una nuova terra ricca di boschi,  lontana,  molto lontana,  finalmente al sicuro dagli invasori.

Dedicato  a Luca Pivano

  15 Agosto 2020